La denuncia ai sensi dell’articolo 59 D. Lgs. 42/2004 è finalizzata a consentire l’esercizio del diritto di prelazione da parte dello Stato per una finalità pubblicistica.

L’ente pubblico deve considerare sia il bene immobile in quanto tale e la potenziale funzionalità ad uno scopo istituzionale, sia il prezzo della cessione.

L’obbligo di pubblicazione grava sull’alienante.

L’atto stipulato in assenza della dovuta denuncia allo Stato per l’eventuale esercizio del diritto di prelazione è inefficace nei confronti del prelazionario.

Il fatto

Un signore ha formulato una proposta di acquisto per un appartamento, che è stata poi accettata.

Il notaio incaricato a redigere il contratto preliminare ha, però, rilevato come non risultassero notificati allo Stato gli atti di provenienza.

In sede di preliminare, la venditrice ha assunto l’obbligo di effettuare ogni verifica e conseguente adempimento, a fronte della corresponsione dell’importo richiesto.

Non avendo, tuttavia, la venditrice correttamente adempiuto alla propria obbligazione, l’acquirente ha proposto di attivare la procedura di verifica dell’interesse culturale della Pubblica Amministrazione. Tale proposta non è stata, però, accolta dal venditore.

Il primo, allora, ha dichiarato il recesso dal contratto preliminare, richiedendo la restituzione del doppio della caparra.

La pronuncia

Il Tribunale di Ferrara, con sentenza depositata il 18 aprile 2019, ha accertato il legittimo esercizio del diritto di recesso da parte dell’acquirente e ha condannato il venditore alla restituzione del doppio della caparra.

Non è risultato sufficiente, infatti, l’invio alla Sovraintendenza da parte del venditore della dichiarazione di successione, con la quale si è attestato di aver ricevuto l’immobile mortis causa.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Il Giudice di pace di Brindisi, con la sentenza n. 1052, depositata in data 31 Maggio 2018, ha condannato la compagnia aerea al risarcimento dei danni subiti da alcuni viaggiatori per la cancellazione di un volo, senza fornire altre soluzioni alternative, che di fatto ha costretto loro a rinunciare al viaggio in Portogallo.

Il fatto

Gli attori citavano in giudizio la compagnia aerea per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa della cancellazione del volo, senza che venisse fornita loro la possibilità di riprotezione sul primo volo utile successivo oltre al rimborso del prezzo del biglietto.

Si costituiva la compagnia convenuta eccependo il difetto di giurisdizione del giudice italiano nonché il rigetto della domanda.

La pronuncia

Sulla Giurisdizione del Giudice Italiano, in base alla recente pronuncia della Corte di Giustizia UE, sez. IV, 9 luglio 2009, C-204/2008, è competente il Giudice del luogo di partenza o atterraggio del volo aereo a conoscere la richiesta di compensazione pecuniaria basata sul contratto di trasporto aereo.

Per quanto riguarda il risarcimento dei danni subiti, il Regolamento CE n. 261/04 disciplina la cancellazione del volo e il ritardo prolungato, oltre al caso di negato imbarco dovuto ad overbooking. La normativa prevede che, in caso di cancellazione del volo, il passeggero ha diritto cumulativamente: al rimborso del prezzo del biglietto e, se del caso, al volo di ritorno verso il punto di partenza iniziale, oppure ad un volo alternativo verso la destinazione finale da prendere immediatamente o in una data successiva di gradimento, oltre ad altri servizi per agevolare i viaggiatori e contenere i disagi subiti.

Nel caso di specie la compagnia aerea non ha ottemperato a quanto previsto dalla normativa e pertanto è stata condannata al pagamento rispettivamente della compensazione pecuniaria, del rimborso spese per la cancellazione del volo e di un importo supplementare per i gravi disagi subiti.    

Sent. GdP Brindisi

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

Nei casi in cui il titolare del bene protetto non intenda concedere lo sfruttamento della riproduzione fotografica dei propri dati personali ad altri, non può essere escluso un danno patrimoniale.

Anche qualora non possano essere dimostrate specifiche voci di danno patrimonialmente valutabili, la parte lesa può comunque chiedere una determinazione di tale importo in via equitativa, avuto riguardo alla consistenza del vantaggio economico conseguito dall’autore dell’illecita pubblicazione e ad ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione.

Il fatto

Una rivista di cronaca rosa ha pubblicato 13 fotografie che hanno ritratto un attore famoso in atteggiamenti intimi con una nota soubrette.

Egli ha, dunque, citato in giudizio il direttore e la casa editrice della rivista chiedendo il risarcimento per i danni subiti.

Il Tribunale di Milano ha condannato entrambi i convenuti al pagamento di una ingente somma a titolo di risarcimento dei danni sia patrimoniali, sia non patrimoniali.

La Corte d’Appello meneghina, tuttavia, pur avendo confermato la sussistenza delle violazioni del diritto alla riservatezza dell’appellato e del trattamento illecito dei suoi dati personali, ha negato l’esistenza di un danno patrimoniale. Non ha, infatti, riscontrato la possibilità di sfruttamento economico delle immagini da parte dello stesso attore.

Quest’ultimo, allora, ha promosso ricorso per cassazione, ritenendo per contro che avrebbe consentito alla pubblicazione delle proprie immagini dietro corrispettivi milionari.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1875, depositata il 23 gennaio 2019, ha accolto il ricorso perché fondato.

Secondo i giudici di legittimità, chiunque pubblichi abusivamente il ritratto di una persona notoria è tenuto, nei suoi confronti, al risarcimento del danno.

La quantificazione di questo è operata tenendo conto delle cause di detta notorietà: se essa consegue ad esercizio di un’attività di sfruttamento rimunerato dell’immagine, l’abusiva pubblicazione comporta un danno di natura patrimoniale.

La persona danneggiata, pertanto, deve essere risarcita del pregiudizio economico di cui ha risentito. E qualora esso non possa essere dimostrato, l’importo può essere determinato in via equitativa dal giudice.

Cass_1875_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La Sesta Sezione civile della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 16405/2019, depositata il 19 giugno 2019, ha disposto che la durata del matrimonio rileva ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento.

Il fatto

Il Tribunale ha rigetto la domanda, a carico dell’ex marito, di addebito della separazione, e ha modificato la somma prevista per il mantenimento dell’ex moglie.

La Corte d’Appello ha confermato quanto statuito dal Tribunale e ha basato la decisione sul differente reddito dei due soggetti, sulla convivenza e sulla breve durata del matrimonio.

La ex moglie ha proposto ricorso per cassazione precisando che vi sono le condizioni per la separazione dal marito e la determinazione di un assegno di mantenimento.

La pronuncia 

La Corte di Cassazione ha ritenuto manifestamente infondati i motivi di ricorso addotti dalla ex moglie, in primis quello sull’addebito della separazione, poichè ricade sulla parte che chiede l’addebito per infedeltà dell’altro coniuge l’onere di provare il comportamento che lede i diritti e l’avere reso intollerabile la vita di coppia.

In secondo luogo, infondato il motivo sull’addebito della separazione poichè si basa sulla durata del matrimonio la determinazione della misura dell’assegno di mantenimento.

Per tale motivo è stato modificato l’assegno di mantenimento.

Assegno di mantenimento

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La Seconda Sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 27927/2019, depositata il 25 giugno 2019, ha statuito che l’indifferenza riposta nell’acquisto di un cellulare, da parte di un soggetto, non esclude i profili del reato di ricettazione.

Il fatto

Il Tribunale ha condannato una persona che, recatosi presso un mercatino dell’usato, ha acquistato un telefono cellulare senza prima premurarsi della natura illecita del bene.

La Corte d’Appello ha confermato quanto deciso in primo grado in realzione al delitto di ricettazione.

L’imputato ha, così, proposto ricorso per cassazione deducendo la violazione della legge penale in relazione all’elemento soggettivo di tale delitto in assenza dei requisiti del dolo eventuale nell’acquisto di uno smartphone effettuato con mera indifferenza.

Altro motivo addotto, riguarda l’accertamento dell’elemento soggettivo del delitto di ricettazione desunto dall’uso della scheda simintestata all’imputato.

Come ultimo motivo, il vizio di motivazione in relazione alle circostanze attenuanti generiche, motivato con l’assenza di segnali di resipiscenza.

La pronuncia 

La Corte di Cassazione ha ritenuto manifestamente infondati il primo e secondo motivo di ricorso, poichè afferma che l’imputato, che è stato trovato nella disponibilità di refurtiva di qualsiasi natura, e non viene provata l’origine del possesso, risponde del delitto di ricettazione; questo perchè, l’assenza di giustificazione, costituisce prova della conoscenza dell’illecita provenienza della res.

Il dolo di ricettazione si atteggia nel dolo eventuale quando, il soggetto agente, accetta consapevolmente il rischio che la cosa acquistata sia di illecita provenienza.

Per tali motivi, la Corte ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 2.000,00 alla Cassa delle ammende.

cass pen ricettazione telefono comprato al mercatino

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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L’imprudenza ed il comportamento non conforme a diligenza di un pedone comporta l’attribuzione di un concorso di colpa in capo al medesimo nella causazione di un sinistro e, di conseguenza, una diminuzione del risarcimento allo stesso spettante.

Il fatto

Nel febbraio 2012, un signore ha attraversato una strada, posta all’interno di un centro abitato, a doppio senso di marcia, al di fuori delle strisce pedonali.

In quell’istante, è sopraggiunto un furgoncino che, accidentalmente, ha urtato il passante.

Quest’ultimo, caduto a terra, è stato immediatamente soccorso dall’automobilista e trasportato nel più vicino nosocomio.

Dopo alcune settimane, l’uomo è morto per complicanze cliniche.

Il guidatore del furgoncino è stato condannato, dal Tribunale di Monza, a quattro mesi di reclusione per il reato di omicidio colposo ed al risarcimento dei danni nei confronti dei familiari del defunto, tenuto conto tuttavia del concorso di colpa del pedone.

La sentenza è stata confermata dalla Corte d’Appello di Milano.

I parenti della vittima, allora, hanno promosso ricorso per cassazione, perché pur essendo vero che l’attraversamento è avvenuto fuori dalle strisce pedonali, il sinistro è accaduto in prossimità delle stesse. Inoltre, la vittima ha attraversato, rispetto al senso di marcia del veicolo, da sinistra verso destra, favorendo la percezione della sua presenza da parte dell’automobilista.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23251, depositata il 28 maggio 2019, ha rigettato il ricorso perché infondato.

Nel caso di specie, infatti, è emerso che la persona offesa ha attraversato la strada fuori dalle strisce pedonali e che, prima di essere investita, non ha prestato alcuna attenzione al sopraggiungere di veicoli.

Il comportamento dei pedoni è soggetto alle comuni regole di diligenza e prudenza, per evitare situazioni di pericolo sia per la circolazione stradale, sia per la propria incolumità.

La condotta del pedone, quindi, non conforme a diligenza comporta correttamente l’attribuzione di responsabilità nella causazione del sinistro.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Il Tribunale di Asti, con sentenza n. 387/2019, depositata il giorno 08 maggio 2019, ha condannato un legale rappresentante di una azienda agricola a 6 mesi di reclusione ed Euro 6.000,00 di multa per avere alterato il vino “Barolo”.

Il fatto

L’operazione è stata posta in essere vinificando delle uve Nebbiolo fuori dal territorio di origine previsto dal disciplinare di produzione.

I controlli effettuati dai NAS, hanno portato alla luce che il titolare dell’azienda agricola vinificava, invecchiava e imbottigliava, non nella azienda del cognato, che si trovava in Barolo, come aveva dichiarato, bensì fuori dai confini del territorio autorizzato.

La pronuncia 

Il Giudice ha ritenuto di condannare l’imputato, poichè nessun motivo fatto valere dalla parte era in grado di sconfessare quanto orchestrato.

Il vino Barolo è stato classificato come denominazione di origine ed il Giudice è partito da questo assunto per applicare l’art. 517 quater c.p..

Il D.M. 17 aprile 2015, all’art. 5, afferma che “le operazioni di vinificazione ed invecchiamento devono essere effettuate nella zona delimitata dall’art 3”.

Per tale motivo è stato applicato l’art. 517 quater c.p., poichè la rilevanza penale della contraffazione, dell’alterazione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari, non richiede l’idoneità delle indicazioni ingannevoli che portano il consumatore ad essere indotto in errore.

Con la sentenza dovranno essere confiscati e distrutti 258 ettolitri di vino e 692 bottiglie di vino falsamente attestato Barolo DOCG.

 Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Con la sentenza n. 2190 del 20 maggio 2019, il Tribunale di Bari ha chiarito e ribadito il valore processuale della quietanza liberatoria

Il fatto

All’origine della lite, vi era un contratto di cessione del credito.

Tuttavia, la parte cedente conveniva in giudizio la cessionaria chiedendo condanna della stessa a causa del supposto mancato pagamento del prezzo pattuito.

Costituitosi in giudizio, il convenuto eccepiva l’infondatezza della domanda attorea giacché, in una successiva scrittura privata, parte attrice aveva fornito alla convenuta ampia quietanza liberatoria.

La pronuncia

Il Tribunale ha affermato che la quietanza è un atto unilaterale recettizio e non negoziale in quanto forma una dichiarazione di scienza con cui un soggetto riconosce quanto è stato prestato da taluno.

Dovendosi attribuire a tale atto la qualifica di confessione stragiudiziale, quest’ultimo assume valore probatorio di piena prova che preclude la prova contraria circa l’avvenuto pagamento del debito.

Il Tribunale ha anche chiarito che la dichiarazione contenuta nella quietanza, essendo irrevocabile, può essere invalidata solo dando la prova dell’errore o della coercizione.

Non ricorrendo nel caso di specie simili circostanze il Tribunale di Bari ha rigettato la domanda.

Trib. bari

Avv. Federico Tosi

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano e in Diritto Belga presso l’Université Catholique de Louvain-la-Neuve. Ha conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Bari ed è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Bari. Si occupa di Diritto Civile e di Diritto dello Sport.

Nell’ipotesi in cui un motociclista collida con un cassonetto posto al margine della carreggiata ma sporgente sulla propria corsia di marcia, egli potrà richiedere il risarcimento dei danni, in via solidale, sia all’ente pubblico proprietario della strada, sia alla società appaltatrice del servizio di raccolta dei rifiuti, in quanto proprietaria del cassonetto.

Il fatto

Un motociclista, percorrendo una via del Comune di Nuoro, incrociando un altro veicolo proveniente dal senso opposto di marcia, si è accostato in prossimità del margine destro della carreggiata e ha urtato la spalla ed il braccio destri contro un cassonetto per la raccolta rifiuti ivi posizionato, cadendo rovinosamente a terra.

Detto cassonetto è risultato, poi, privo della prescritta segnaletica orizzontale, in posizione obliqua sulla striscia di margine della carreggiata e sporgente di 40/50 cm sulla corsia di marcia percorsa dal danneggiato.

Quest’ultimo, quindi, ha citato in giudizio sia il Comune, quale proprietario della strada, sia la società concessionaria del servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani, avente la responsabilità diretta e la custodia dei cassonetti per la raccolta dei rifiuti.

Il Tribunale di Nuoro, in primo grado, ha accolto la domanda solo nei confronti della citata società, non avendo ravvisato alcuna responsabilità nei confronti dell’ente pubblico, e l’ha di conseguenza condannata al risarcimento dei danni in favore del motociclista.

La Corte d’Appello di Cagliari, invece, in secondo grado, ha dichiarato che il sinistro è avvenuto per responsabilità concorrente del Comune e della società addetta alla raccolta dei rifiuti e che all’evento ha concorso pure il motociclista, in misura pari al 50%.

La Pubblica Amministrazione ha, allora, promosso ricorso per cassazione, ritenendo di non avere alcuna responsabilità in quanto il danno non sarebbe stato provocato dalla strada, bensì dal cassonetto dei rifiuti, la cui custodia non sarebbe di propria competenza.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15860, depositata il 3 giugno 2019, ha rigettato il ricorso perché infondato.

Ha precisato come, nel caso in esame, sussistesse la corresponsabilità, al 50%, tra il motociclista, da un lato, e il Comune e la società appaltatrice del servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani, dall’altro.

Tale situazione, infine, configura una responsabilità ex art. 2051 c.c. e non ex art. 2043 c.c..

Cass_15860_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Lo stato di insolvenza dell’imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione di impotenza strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività.

Il fatto

Su ricorso proposto da un Istituto bancario, il Tribunale di Salerno ha dichiarato il fallimento di una società.

Questa ha impugnato con reclamo la sentenza, il quale è stato, tuttavia, rigettato dalla Corte d’Appello di Salerno, secondo la quale lo stato d’insolvenza sarebbe stato desumibile sia dal mancato pagamento del debito della banca, sia dalla condotta della società stessa, che ha dismesso il suo patrimonio rendendo vane le azioni esecutive dei creditori.

La società ha, allora, promosso ricorso per cassazione, ritenendo che l’inadempimento di una sola obbligazione non costituisse un elemento univoco per valutare l’insolvenza dell’azienda.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 15572, depositata il 10 giugno 2019, ha rigettato il ricorso perché infondato.

I giudici del merito, infatti, hanno correttamente scrutinato la sussistenza dello stato di insolvenza, avendo rilevato l’eccedenza del passivo sull’attivo dell’azienda, dovuta appunto alla dismissione del patrimonio sociale e all’inadempimento nei confronti della Banca.

Cass_15572_2019