Il T.A.R. Campania, con una sentenza del 2019, ha affermato che la stipulazione del contratto di locazione non sia idonea a escludere i doveri di controllo, cura e vigilanza sorti in capo al proprietario dell’immobile, che è responsabile degli abusi edilizi commessi dal conduttore, al quale ha trasferito la disponibilità materiale e il godimento del bene.

Il fatto

Il proprietario di un immobile impugnava l’ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, emessa dal Comune di Pagani, perché aveva appreso dell’esistenza di interventi abusivi realizzati dal conduttore solo a seguito della notifica del provvedimento.

Il Comune e il conduttore non si costituivano in giudizio.

La pronuncia

Il T.A.R. Salerno, aderendo ad un orientamento consolidato della giurisprudenza, ha ritenuto che sia indifferente la circostanza che il proprietario dell’immobile, sul quale è stato realizzato l’abuso, non sia in realtà l’autore materiale dello stesso. L’ordine di demolizione e riduzione in pristino dello stato dei luoghi è un atto di tipo ripristinatorio, che è rivolto nei confronti di chi è in un rapporto con la res tale da assicurare l’eliminazione delle conseguenze dell’abuso tramite la rimozione delle opere realizzate. 
 
Nel caso di specie, il proprietario non aveva partecipato alla realizzazione dell’abuso ma è venuto meno ai suoi obblighi di vigilanza e controllo sull’immobile locato, sorti con la stipulazione del contratto determinandone la sua responsabilità.  

 

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

 

Il profilo inerente l’uso pubblico della strada vicinale è prioritario e dirimente ai fini della valutazione del requisito della contiguità dei fondi.

Il profilo inerente, invece, la proprietà della fascia di terreno su cui insiste la strada assume rilievo solo una volta escluso l’uso pubblico del bene.

Il fatto

Un coltivatore e proprietario diretto di un fondo agricolo ha citato in giudizio l’acquirente del fondo limitrofo, esercitando il suo diritto di riscatto, perché la vendita effettuata ha violato il suo diritto di prelazione, spettantegli in forza della Legge 590/1965.

In primo grado, il Tribunale ha accolto la sua domanda, disponendo il trasferimento in suo favore del fondo, previo pagamento del prezzo.

In secondo grado, invece, la Corte d’Appello ha rigettato la domanda di riscatto, perché non sussisterebbe alcun diritto di prelazione in capo al coltivatore, in quanto tra i due fondi vi sarebbe una strada di proprietà provata ad uso pubblico, che interromperebbe la contiguità richiesta dalla Legge 590/1965.

Egli ha, allora, promosso ricorso per cassazione, ritenendo che l’indirizzo giurisprudenziale seguito sarebbe attinente a fattispecie diverse da quelle oggetto di causa.

La pronuncia

Con la sentenza n. 6537, pubblicata il 5 aprile 2016, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

I giudici di secondo grado hanno correttamente applicato il principio secondo il quale, ai fini dell’esercizio della prelazione e del riscatto agrari, non sussiste la contiguità dei fondi quando essi siano separati da una strada, anche vicinale e non soggetta al pubblico transito.

Nel caso in esame, dunque, la strada collocata all’interno del fondo oggetto di riscatto, al confine tra le proprietà, destinata al transito pubblico, costituisce un’entità autonoma tra i fondi stessi e, quindi, ne interrompe la contiguità, comportando di conseguenza l’infondatezza del diritto vantato dall’attore.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La Cassazione civile, Sezione Lavoro, nella sentenza del 2019, ha precisato che nel caso di erroneo calcolo dei contributi da parte dell’INPS, la responsabilità ricade anche sull’assicurato.

Il fatto

Il caso in oggetto riguarda la richiesta effettuata da un contribuente al’Inps, riguardo alla sua posizione contributiva.

L’Istituto ha comunicato all’uomo che aveva i requisiti per il conseguimento della pensione d’anzianità, cosicché decise di dare le dimissioni dal posto di lavoro.

In seguito ricevette una comunicazione che, tale posizione contributiva, riguardava altra persona col medesimo cognome e data di nascita.

L’Inps inviò una raccomandata con richiesta di restituzione della somma erogata.

L’uomo agì per vie legali. 

La Corte territoriale, in parziale riforma della sentenza di primo grado, diede ragione al contribuente con riconoscimento, però, del concorso colposo nella causazione del danno

La pronuncia

La Corte di Cassazione ha affermato che l’Istituto è comunque responsabile dei dati forniti sulla posizione contributiva, però ha riscontrato, nel comportamento del contribuente, un concorso di colpa, poiché con l’ordinaria diligenza, chiunque ha il dovere di limitare e interrompere un eventuale danno.

Infine, la Corte ha rigettato entrambi i ricorsi proposti dall’Inps e dal contribuente.

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Per la configurazione del reato di cui all’art. 659 c.p., è sufficiente che i rumori siano idonei ad arrecare disturbo ad un gruppo indeterminato di persone, anche se raccolte in un ambito ristretto, come un condominio.

Il fatto

Un signore è stato imputato per il reato di cui all’art. 659 c.p. (disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone) per non aver impedito ai tre galli di sua proprietà di cantare nelle ore notturne, nonostante le molteplici segnalazioni ricevute dai vicini.

I giudici di merito, sia in primo grado, sia in appello, lo hanno condannato alla pena di 20 giorni di arresto.

Egli ha, dunque, promosso ricorso per cassazione, ritenendo che non fosse stato compiuto alcun accertamento volto a stabilire il superamento della soglia della normale tollerabilità delle emissioni sonore, che avrebbe messo in pericolo il riposo di un numero indeterminato di persone.

La pronuncia

Con la sentenza n. 41601, pubblicata il 10 ottobre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Nel caso di specie, sia l’elemento oggettivo, sia quello soggettivo sono stati ritenuti concretamente ravvisabili e, quindi, la condanna è stata confermata.

Nei confronti dell’imputato, inoltre, non possono essere riconosciute le attenuanti generiche perché ha manifestato la totale noncuranza nei confronti dei propri vicini, dimostrandosi sordo alle loro rimostranze per un lungo periodo.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La Sesta sezione Civile della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 24927/2019, depositata il 07 ottobre 2019, ha specificato che le parti del fabbricato condominiale che hanno la finalità di evitare infiltrazioni di acqua piovana o sotterranea rientrano tra le cose comuni, per la funzione necessaria all’uso collettivo.

Il fatto

Il caso riguarda una lite tra condomini in merito alla ripartizione delle spese condominiali per la manutenzione del tetto del fabbricato.

Una condomina, non ha voluto partecipare alle spese per la manutenzione del tetto, in quanto le unità immobiliari appartenenti alla ricorrente non sono situate al di sotto della proiezione verticale del medesimo tetto oggetto di ristrutturazione.

La Corte d’Appello ha affermato che “le opere ed i manufatti fognature, canali di scarico e simili (art. 1117 c.c., n. 3), deputati a preservare l’edificio condominiale da agenti atmosferici e dalle infiltrazioni d’acqua, piovana o sotterranea, rientrano, per la loro funzione necessaria all’uso collettivo”

La pronuncia

La Corte di Cassazione, ha confermato quanto disposto dalla Corte d’Appello, e afferma che le spese per le parti comuni per la conservazione dell’edificio sono assoggettate alla ripartizione in misura, che sono proporzionali al valore delle singole proprietà esclusive.

Il ricorso, pertanto, è stato rigettato.

Spese per il tetto

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Va esclusa la responsabilità dell’Ente custode allorché i danni conseguenti ad una caduta siano ascrivibili unicamente al danneggiato.

Il fatto

Un signore che stava camminando di notte, su una strada illuminata, assieme ad alcuni amici, guardando le vetrine dei negozi, è inciampato su un tombino che creava un leggero avvallamento del manto stradale.

Egli ha, dunque, citato in giudizio il Comune custode di detta strada, per ottenere il risarcimento dei danni patiti.

Le sue domande, tuttavia, sono rigettate sia in primo grado, sia in appello.

Ha, allora, promosso ricorso per cassazione, ritenendo che l’incidente fosse causato dall’anomalia della strada pubblica, avente da sola potenzialità lesiva idonea a cagionare l’evento.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 25436, pubblicata il 10 ottobre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

In materia di responsabilità da cose in custodia, la giurisprudenza di legittimità ha fissato alcuni principi:

  1. il criterio di imputazione della responsabilità fondato sul rapporto di custodia opera in termini oggettivi;
  2. il danneggiato ha solo l’onere di provare il nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno;
  3. il custode ha l’onere della prova liberatoria del caso fortuito;
  4. il caso fortuito è da intendersi da un punto di vista oggettivo, senza alcuna rilevanza della diligenza del custode;
  5. le modifiche improvvise della struttura della cosa divengono, col trascorrere del tempo, nuove intrinseche condizioni della cosa, di cui il custode deve rispondere.

Nel caso in esame, la disattenzione del passante ha di per sé il nesso eziologico tra cosa e danno e, quindi, escluso ogni responsabilità del Comune.

Cass_25436_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Per stabilire se sussiste la giusta causa di licenziamento con specifico riferimento al requisito della proporzionalità della sanzione, occorre accertare in concreto se la specifica mancanza commessa dal dipendente risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro.

Il fatto

La store manager di un negozio ha tenuto comportamenti che l’hanno condotta al licenziamento disciplinare, quali l’introdurre nel negozio medesimo una sarta per farsi confezionare un vestito identico ad un modello in vendita, lo svolgimento telefonico di attività di cartomanzia in orario di lavoro, l’aver messo da parte capi di abbigliamento destinati alla vendita, l’aver indossato capi destinati alla vendita durante l’orario di lavoro, l’essersi ripetutamente assentata dal lavoro senza autorizzazione e aver ripetutamente rimproverato e mortificato le colleghe.

Questa ha proposto reclamo dinanzi alla Corte d’Appello di Genova, la quale ha accolto le sue ragioni e ha condannato l’azienda al pagamento di un’indennità risarcitoria quantificata in 15 mensilità.

Il datore di lavoro ha, dunque, promosso ricorso per cassazione, perché i giudici di merito non avrebbero considerato le mansioni di gerente della lavoratrice e le maggiori responsabilità connesse a tale ruolo.

La pronuncia

Con la sentenza n. 24619, pubblicata il 2 ottobre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso.

I giudici del merito non hanno considerato la portata soggettiva della specifica mancanza commessa dal dipendente.

In particolare, non hanno considerato il ruolo svolto dal lavoratore, cioè quello di gerente, e le connesse responsabilità né sul piano di un più intenso obbligo di diligenza, né del dovere di comportamenti tali da costituire positivi riferimenti per i propri sottoposti.

Di conseguenza, il licenziamento disciplinare irrogato nei confronti della lavoratrice è divenuto definitivo.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La Prima sezione Civile della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 24937/2019, depositata il 07 ottobre 2019, ha respinto una richiesta del padre di vedere il figlio con maggior frequenza, decidenedo, quindi, la collocazione presso la madre.

Il fatto

A seguito di una separazione di una coppia, i giudici hanno deciso per l’affidamento condiviso del figlio minore, collocandolo presso la madre.

Il figlio viene spostato presso il luogo di residenza della madre con il susseguente trasferimento di istituto scolastico.

Il padre impugna il provvedimento del giudice che ha disposto di «trascorrere con il minore quattro giorni al mese e due pomeriggi con pernottamenti».

L’uomo si è visto respingere la richiesta del diritto di visita poiché lo schema da lui proposto «sarebbe estremamente articolato e frammentario, disfunzionale rispetto alle esigenze di stabilità e di serenità del minore».

La pronuncia

La Corte di Cassazione ha confermato quanto disposto dalla Corte territoriale e ha rigettato le richieste proposte dal padre riguardo allo schema estremamente articolato e frammentato e, soprattutto, non funzionale per il minore.

affido condiviso

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La Seconda sezione Civile della Corte di Cassazione, con sentenza n. 24855/2019, depositata il 04 ottobre 2019, ha statuito che nel caso in cui risulti, da contratto, una vettura non conforme a quella indicata, l’acquirente può proporre domanda di risoluzione. Per tale motivo non vi sono alternative per il venditore se le dichiarazione sullo stato della macchina sono mendaci.

Il fatto

Un uomo ha stipulato un contratto di compravendita di una autovettura usata Nissan.

In primo grado è stata rigettata la domanda di risoluzione contrattuale per la non conformità della vettura con quella indicata in contratto.

L’acquirente ha proposto ricorso per Cassazione contro la pronuncia della Corte d’Appello che ha dichiarato inammissibile il gravame proposto.

La pronuncia

La Corte ha precisato che il ricorrente ha proposto la domanda di risoluzione del contratto ai sensi degli artt. 1490 e 1492 c.c., per non conformità del veicolo con quella descitta in contratto; in appello ha fatto riferimemento anche sulla malafede e sul dolo della venditrice con domanda di annullamento del contratto.

Tale domanda nuova non ha pregiudicato quella originaria di risoluzione sulla quale i giudici dell’Appello avrebbero dovuto pronunciarsi.

Per tale motivo gli Ermellini hanno accolto il ricorso e cassato con rinvio la sentenza.

Macchina alterata km

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La Prima sezione Civile della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 21916/2019, pubblicata il 30 agosto 2019, ha statuito che la scelta religiosa per il figlio, da parte dei genitori, deve essere fatta nell’interesse del minore.

Il fatto

Un padre, in sede di separazione giudiziale, in merito alla formazione religiosa del figlio, si è opposto fermamente a fare frequentare al minore le Sale del Regno dei Testimoni di Geova, e, in sede giudiziale, ha richiesto che il figlio, essendo stato battezzato secondo il rito cattolico, continuasse tale strada fino al raggiungimento di un’età idonea per potere scegliere l’orientantamento religioso più consono.

Il Tribunale e la Corte d’Appello hanno accolto la domanda del padre e hanno disposto che fosse il padre a seguire il figlio sull’aspetto religioso, imponendo alla madre di non coingolgere il figlio negli insegnamenti della dottrina geovista.

La pronuncia

Proposto ricorso per Cassazione dalla madre, ha sostenuto che era suo diritto, nel preminente interesse del minore, che ci fosse una relazione con entrambi i genitori  a ricevere la loro eredità culturale e, inoltre, ha precisato che la sentenza della Corte d’Appello ha violato il diritto alla libertà religiosa, il principio di non discriminazione e di laicità, tutelati dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea.

La Corte ha accolto il ricorso e rinviato alla Corte d’appello affermando che solo in caso di pregiudizio per il minore è consentita l’emanazione di provvedimenti restrittivi delle libertà religiose.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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