In tema di assicurazione contro i danni, l’inosservanza, da parte dell’assicurato, dell’obbligo di dare avviso del sinistro, secondo le specifiche modalità ed i tempi previsti dall’art. 1913 c.c., non può implicare, di per sé, la perdita della garanzia assicurativa, occorrendo a tal fine accertare se detta inosservanza abbia carattere doloso o colposo. 

Il fatto

Una carrozzeria, cessionaria del credito di un soggetto danneggiato a seguito di un sinistro stradale, ha citato in giudizio la Compagnia assicurativa della vettura di quest’ultimo per ottenere il pagamento del corrispettivo per le riparazioni effettuate sul mezzo.

Sia il giudice di pace, in primo grado, sia il Tribunale, in grado di appello, hanno però rigettato la domanda in quanto il soggetto assicurato avrebbe denunciato tardivamente il sinistro alla propria assicurazione, cioè oltre i tre giorni previsti dalla legge.

La carrozzeria, allora, ha promosso ricorso per cassazione, ritenendo che la tardiva comunicazione dell’evento non fosse ascrivibile al dolo dell’assicurata e che, pertanto, ai sensi dell’art. 1915 c.c., l’indennizzo avrebbe dovuto essere ridotto ma non escluso.

La pronuncia

Con la sentenza n. 24210, pubblicata il 30 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il motivo di ricorso.

I giudici hanno osservato come, da un lato, l’art. 1913, co. 1, c.c. disponga che “l’assicurato deve dare avviso del sinistro all’assicuratore (…) entro tre giorni da quello in cui il sinistro si è verificato o l’assicurato ne ha avuto conoscenza”; dall’altro lato, l’art. 1915, co. 1, c.c., preveda che “l’assicurato che dolosamente non adempie l’obbligo dell’avviso (…) perde il diritto all’indennità” e, al co. 2, che “se l’assicurato omette colposamente di adempiere tale obbligo, l’assicuratore ha diritto di ridurre l’indennità in ragione del pregiudizio sofferto”.

Alla luce di queste norme, la giurisprudenza ha stabilito il principio secondo il quale l’inosservanza, da parte dell’assicurato, dell’obbligo di dare avviso del sinistro non possa implicare, di per sé, la perdita della garanzia assicurativa. A tal fine occorre sempre accertare se detta inosservanza abbia carattere doloso o colposo, dato che nella seconda ipotesi il diritto all’indennità non viene meno, ma si riduce in ragione del pregiudizio sofferto dall’assicuratore.

Di conseguenza, la carrozzeria ha il diritto ad ottenere un indennizzo, seppur ridotto.

Cass_24210_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13354, depositata in data 26 maggio 2017, ha affermato che il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne da parte del genitore obbligato cessa quando il figlio ha raggiunto l’autosufficienza economica, anche qualora svolga attività lavorativa con contratti a termine e guadagni contenuti.  

Il fatto

Il Tribunale di Civitavecchia disponeva in favore dei figli un contributo paterno per il loro mantenimento e l’assegnazione della casa coniugale, nella quale convivevano con la madre. Il padre, obbligato al versamento del relativo assegno, proponeva appello chiedendo la revoca dell’assegno di mantenimento dei figli perché maggiorenni e autosufficienti economicamente. La Corte D’Appello di Roma revocava il contributo paterno a decorrere dall’anno in cui figli hanno iniziato a svolgere regolare attività lavorativa. Il padre ricorreva in Cassazione per vedersi restituire le somme finora versate a titolo di mantenimento. I figli resistevano con controricorso e proponevano ricorso incidentale.

La pronuncia

La Cassazione ha statuito che i figli maggiorenni che svolgono regolare attività lavorativa, seppur con contratti a termine e con guadagni contenuti, sono economicamente autosufficienti e pertanto non è più dovuto loro l’assegno di mantenimento.
 
Nel caso di specie, i figli fino al 2010 non svolgevano un’attività lavorativa stabile, in particolare uno di loro era titolare di un contratto di apprendistato. A decorrere da quella data i figli hanno cominciato a lavorare con contratti a termine e con guadagni contenuti, con la conseguenza che è stato a loro revocato sia l’assegno di mantenimento, che l’assegnazione della casa coniugale.  
sentenza n. 13354_2017

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

 

La Corte di Giustizia Europea, in Grande Sezione, con sentenza del 01 ottobre 2019, nella causa C-637/2017, ha statuito che per quanto riguarda l’installazione dei cookie, la casella preselezionata che compare a monitor, non è idonea per ottenere il consenso dell’utente poichè non è specifico.

Il fatto

Una società tedesca ha organizzato un gioco a premi su un sito internet.

Coloro che volevano partecipare a detto gioco, avrebbero dovuto fornire il codice postale, nome, cognome ed indirizzo e spuntare una casella preselzionata, con la quale si esprimeva l’accordo all’installazione dei cookie.

La Corte Federale tedesca ha domandato alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea un’interpretazione del diritto europeo in merito alla tutella della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche.

La pronuncia

La CGUE ha affermato che non è valido il consenso espresso dall’utente di internet che ha dovuto solo spuntare una casella preselezionata, poichè è necessario che esso sia specifico.

Viene precisato dalla Corte che il semplice “flag” della casella per partecipare ad un gioco, non è sufficiente per dare il consenso all’installazione dei cookie.

Infine, l’Unione ha come scopo quello di tutelare l’utente ed evitare che soggetti esterni si introducano nel terminale senza che lo stesso se ne accorga.

Cookie

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 13112018-_DSC3781-1030x716-300x209.jpg

 

La surrogazione dell’INAIL è una successione a titolo particolare del solvens nel diritto di credito vantato dall’accipiens nei confronti di un terzo.

Il fatto

Nel 1994 un operaio ha riportato gravi danni alla sua persona a causa di un incidente sul lavoro.

In conseguenza di ciò, l’INAIL costituì in suo favore una rendita vitalizia.

Nel 2000, il danneggiato ha sottoscritto una transazione con uno dei corresponsabili del danno, accettando una somma di denaro a tacitazione di qualsiasi credito.

Nel 2007 ha, poi, citato in giudizio gli altri corresponsabili per ottenere il risarcimento dei danni patiti.

Nella causa è intervenuto volontariamente l’INAIL, dichiarando di volersi surrogare nei confronti dei convenuti per la somma già pagata al danenggiato.

In primo grado, il Tribunale ha rigettato la domanda dell’assicuratore sociale.

In appello, tuttavia, i giudici hanno condannato i convenuti a rivalere l’INAIL delle somme da questo pagate al danneggiato, nella misura della propria colpa.

I soccombenti, allora, hanno promosso ricorso per cassazione, ritenendo che il diritto del danneggiato fosse già estinto per transazione e, pertanto, nessuna surrogazione avrebbe potuto aver luogo.

La pronuncia

Con la sentenza n. 24509, pubblicata l’1 ottobre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

Le Sezioni Unite della medesima Corte già hanno stabilito che la surrogazione si realizza al momento del pagamento effettuato dal surrogante nelle mani del creditore originario (il danneggiato), a prescindere da qualsiasi manifestazione di volontà del danneggiato o dell’assicuratore.

In applicazione di tale principio, l’INAIL si è surrogato al danneggiato sin dal momento in cui ha costituito in suo favore una rendita vitalizia; di conseguenza, all’epoca della transazione, il credito era già stato trasferito all’INAIL; quindi il credito del danneggiato oggetto di transazione non si è estinto perché, all’epoca della sottoscrizione dell’accordo, l’INAIL era già titolare dello stesso.

Cass_24509_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Con ordinanza n. 24378/2019, depositata il 30 settembre 2019, la Corte di Cassazione, sezione II Civile, ha statuito che vengono presi in considerazione tutti i redditi, oltre quelli dichiarati e da dichiararsi, compresi quelli provenienti da attività illecite.

Il fatto

Con delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, M.A. veniva, in via anticipata e provvisoria, ammessa al patrocinio a spese dello Stato nel procedimento penale in cui era costituita parte civile.

Il Giudice delle indagini preliminari revocava con decreto tale ammissione, ritenendo che il reddito del nucleo familiare superava quello stabilito dal D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 76 e 92.

Avverso il decreto di revoca la M. ha proposto reclamo dinanzi al Presidente del medesimo ufficio giudiziario, il quale ha respinto l’impugnazione, confermando le ragioni della revoca.

Proponeva rocorso per Cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, rileva che, per richiedere l’ammissione al gratuito patrocinio, occorre tener conto di tutti i redditi, anche quelli non soggetti a tassazione, che coprono il periodo di imposta in cui sono percepiti.

La ricorrente, nell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, aveva dichiarato di non percepire alcun reddito ma di ricevere, dal coniuge separato solo un assegno di mantenimento mensile.


A tal proposito, la Corte di Cassazione si è basata anche su tale reddito mensile che percepiva la ricorrente, pertanto il ricorso veniva rigettato.

assegno mantenimento ai fini del gratuito patr

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 13112018-_DSC3781-1030x716-300x209.jpg

 

Con la recente sentenza, pubblicata il 25 giugno scorso, la Corte di Cassazione ha riaffermato, nell’ambito della propria funzione nomofilattica, i requisiti che devono caratterizzare i criteri adottati dal Giudice del merito quando liquida il danno patrimoniale da lucro cessante, in particolare sotto il profilo del danno permanente da incapacità di guadagno.

Il fatto

Il signor P.D., giovane avvocato, a seguito di un sinistro stradale in cui il suo veicolo era stato investito dall’auto condotta da P.I., formulava richiesta di risarcimento dei danni all’impresa assicuratrice del veicolo antagonista la quale accordava il risarcimento, ammettendo l’esclusiva responsabilità del P.I. nella causazione dell’incidente.

Il P.D., il quale – si evince – aveva riportato lesioni permanenti invalidanti con importanti ripercussioni sulla propria vita privata e lavorativa, riteneva la somma liquidata dall’assicurazione non congrua e, pertanto, conveniva la compagnia avanti al Tribunale di Cremona chiedendo il risarcimento integrale dei danni subiti, quantificati in oltre due milioni di euro al netto della somma già ricevuta.

Il Tribunale prima e la Corte d’Appello di Brescia poi accoglievano parzialmente le istanze del P.D. in quanto, pur riconoscendo in entrambi i gradi di giudizio le basi per un’integrazione di quanto sino a quel momento ricevuto, riducevano sensibilmente le pretese risarcitorie in relazione al danno permanente da incapacità di guadagno.

Tale diversa quantificazione, sostiene il P.D., è errata in quanto da un lato si basa sull’applicazione dei coefficienti di capitalizzazione inseriti nelle tavole allegate al R.D. n. 1403/1922, ormai non più attuali, e dall’altro in quanto il calcolo risulta fatto tenendo conto di una base reddituale costante moltiplicata per gli anni residui di vita, mentre costituisce fatto noto che il reddito di un giovane professionista è destinato ad aumentare anno dopo anno.

Sulla base di questi motivi il P.D. ha quindi proposto ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato l’errore di diritto lamentato dal ricorrente in relazione alla sentenza d’appello, la quale aveva disatteso un orientamento ormai consolidato della Corte di Cassazione, inaugurato nel 2015 e confermato anche nel 2019 con la sentenza n. 16913 in punto di quantificazione del danno permanente da incapacità di guadagno.

La Corte di Cassazione, infatti, illustra che, allo stato dell’arte, tale voce di danno “non può più liquidarsi utilizzando i coefficienti di capitalizzazione approvati con R.D: n. 1403 del 1922 dal momento che questi (…) non sono più idonei a garantire un corretto risarcimento equitativo del danno e, pertanto, a rispettare il dettato dell’art. 1223 c.c.”.

Il Giudice del merito, infatti, pur nella sua autonoma scelta dei coefficienti di capitalizzazione che ritiene più idonei secondo il caso prospettato, deve tener conto di coefficienti supportati da basi scientifiche e attuali, come per esempio quelli utilizzati “per la capitalizzazione di rendite assistenziali o previdenziali o i coefficienti elaborati in dottrina”.

Quanto alla base imponibile da utilizzare per il calcolo, la Corte pur non affrontando il motivo specifico in quanto ritenuto assorbito, riprende quanto affermato nella propria sentenza n. 10499 del 28 aprile 2017: dovrà tenersi conto della retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza “desunta da parametri di rilievo normativo o altrimenti stimata in via equitativa”.

document (1)

Avv. Alessandro Martini

Si laurea presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento nel novembre del 2011 con una tesi in diritto tributario sulla fiscalità dei nuovi strumenti finanziari partecipativi. Ad ottobre 2012 consegue un master di secondo livello presso l’Alta scuola di studi tributari A. Berliri di Bologna e si iscrive presso l’Ordine degli Avvocati di Trento nel 2017.