La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3133 del 1° febbraio 2019, ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Brescia, a mezza della quale si escludeva l’illegittimità del licenziamento per giusta causa nei confronti di una segretaria, la quale accedeva reiteratamente ad internet, in particolare al social network Facebook, durante l’orario di lavoro.
Il fatto
Parte appellante, segretaria a tempo part-time presso uno studio medico, impugnava la sentenza di primo grado, assumendo che il licenziamento intimato avesse carattere ritorsivo in quanto successivo alla richiesta di fruizione dei permessi legge n. 104/2012 e che il datore avesse violato le norme sulla riservatezza.
Il Collegio del gravame respingeva tali assunti difensivi, affermando che il grave contegno della dipendente risulta “in contrasto con l’etica comune” e che le contestazioni promosse dal datore di lavoro non violavano le norme sulla privacy, dato che egli si era limitato a computare le violazioni tramite la cronologia del PC, senza entrare nel merito dei contenti della navigazione.
L’ex segretaria depositava ricorso per cassazione con due motivi.
La pronuncia
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso per cassazione, motivando la propria decisione con argomenti di carattere processuale, nello specifico per difetto dei principi di specificità, di non contestazione nei precedenti gradi del giudizio e d’utilità (artt. 187 c.p.c. e 209 c.p.c.).
Confermando la statuizione della Corte d’Appello di Brescia, la Corte di legittimità ha affermato che “la condotta tenuta dalla lavoratrice, per come emersa sulla base degli elementi acquisiti – vale a dire 6.000 accessi ad Internet estranei all’ambito lavorativo, di cui 4.500 a Facebook, nel corso di 18 mesi, con il pc aziendale durante l’orario di lavoro, tra l’altro part-time, integra la violazione degli obblighi di diligenza e di buona fede nell’espletamento della prestazione lavorativa e non può, dunque, ritenersi di per sé legittima“.
Inoltre, continua la Corte di Cassazione, gli accessi alla pagina personale di Facebook risultano riferibili con certezza alla segretaria perché richiedono una password personale, conoscibile solamente dalla ricorrente stessa.
Ne deriva la legittimità del licenziamento comminato per giusta causa, in quanto il contegno della dipendente risulta di particolare gravità, in contrasto con l’etica comune, che si riflette negativamente sul rapporto fiduciario tra datore di lavoro e dipendente.
Cassazione n. 3133-2019Dott. Dusko Kukic