La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, nell’ordinanza 11129/19, depositata il 19 aprile, ha affermato che al momento del decesso dell’ex coniuge, il superstite ha diritto al riconoscimento della pensione di reversibilità, o una quota di essa, solo se è titolare di un assegno divorzile.

Il fatto

Una donna, rimasta vedova, ha fatto domanda per vedersi riconosciuta la pensione di reversibilità del marito dal quale aveva divorziato.

L’assegno divorzile deve essere riconosciuto dal Tribunale con sentenza che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Il Tribunale ha respinto la domanda sul rilievo che l’assegno stabilito in sede di separazione, di natura alimentare e fondato sul presupposto della permanenza del vincolo coniugale, non poteva continuare una volta dichiarata la cessazione degli effetti del matrimonio.

La Corte territoriale ha confermato quanto statuito dal Tribunale.

La pronuncia 

I motivi di impugnazione che sono stati sollevati dalla donna sono stati ritenuti infondati dalla Suprema Corte di Cassazione.

La Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla donna e ha condannato la stessa al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del contro ricorrente.

nessuna pensione di reversibilità se no titolari di assegno di divorzio

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 13112018-_DSC3781-1030x716-300x209.jpg

 

Il fatto in sé dell’abbandono del tetto coniugale deve essere provato non solo con riferimento alla sua concreta verificazione, ma anche circa la sua efficacia determinativa dell’intollerabilità della convivenza e della rottura dell’affectio coniugalis.

Il fatto

All’esito di un procedimento per la separazione giudiziale dei coniugi, l’ex marito è stato condannato al pagamento di un assegno mensile a titolo di mantenimento sia nei confronti delle figlie, maggiorenni ma economicamente non autosufficienti, sia nei confronti dell’altro coniuge. Non è stata accolta, invece, la sua richiesta di addebito della separazione.

La Corte d’Appello ha confermato in toto la pronuncia di primo grado.

L’uomo ha, quindi, promosso ricorso per la cassazione della sentenza, in quanto i giudici di merito non avrebbero considerato la circostanza dell’abbandono del tetto coniugale da parte dell’ex moglie quale causa di addebito della separazione.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto il motivo inammissibile e ha, dunque, rigettato il ricorso.

In applicazione di un costante orientamento giurisprudenziale, infatti, “non costituisce violazione di un dovere coniugale la cessazione della convivenza quando ormai il legame affettivo fra i coniugi è definitivamente venuto meno e la crisi del matrimonio deve considerarsi irreversibile“.

L’allontanamento dalla casa coniugale, allora, per costituire giusta causa di addebito della separazione, deve essere in rapporto di causalità con l’intollerabilità della convivenza.

Cass_11162_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Il corretto espletamento dell’obbligo custodiale, ex art. 2051 c.c., richiede al condominio, alla luce di uno stato di pericolosità dell’albero, un’attività di vigilanza e manutenzione sulla res in custodia.

Il fatto

Una signora ha convenuto in giudizio un condominio, per ottenere la condanna dello stesso al risarcimento dei danni causati da un albero di grandi dimensioni presente negli spazi condominiali, che ha impedito l’utilizzo del proprio giardino.

La pronuncia

Il Tribunale di Roma ha ritenuto la domanda fondata e, quindi, ha condannato il condominio al pagamento di una somma a titolo di risarcimento dei danni, in via equitativa.

L’attrice ha invocato la responsabilità del condominio ex art. 2051 c.c., cioè una responsabilità oggettiva in capo al custode.

Grava sul danneggiato l’onere di provare l’esistenza del danno ed il nesso di causalità, intercorrente tra l’evento dannoso e la cosa in custodia.

Per contro, il custode è ammesso a fornire la prova liberatoria tramite la dimostrazione del caso fortuito, da intendersi quale interruzione del nesso di causalità determinato da elementi esterni o da un fatto estraneo alla sfera di custodia.

Nel nostro caso, il condominio avrebbe dovuto provare l’incidenza, nello sviluppo causale che ha condotto all’evento dannoso, di un fattore eccezionale ed imprevedibile, tale da escludere la materiale riconducibilità del sinistro all’agire umano.

Dagli atti di causa, al contrario, è emersa una condotta negligente del condominio, che per svariati anni non ha deliberato alcun intervento di potatura dell’albero.

Trib_Roma_4914_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La costituzione di parte civile, esercitata nel procedimento definito con applicazione della pena su richiesta delle parti in sede di indagini preliminari, oltre a subire le preclusioni di cui all’articolo 444, comma 2, c.p.p. risulta illegittima se avviene nella specifica udienza di cui all’articolo 447 c.p.p..
La ratio della predetta, difatti, è quella di vagliare la conformità e l’adeguatezza dell’accordo raggiunto tra pubblico ministero ed imputato, a nulla rilevando i profili privatistici di risarcimento del danno fondanti la costituzione della parte eventuale all’interno del processo penale.
Neppure, se erroneamente lasciata costituire, la parte civile ha diritto al pagamento delle spese sostenute dovendosi ritenere, l’ultima parte del comma 2 dell’articolo 444 c.p.p., relativa ad una costituzione avvenuta antecedentemente alla formazione dell’accordo tra PM e imputato non potendosi porre, a carico del secondo, un atto processualmente inutile e superfluo come la costituzione di parte civile in sede d’udienza ex 447 c.p.p.

Il fatto

In data 29 novembre 2016, il Gip del Tribunale di Catania applicava all’imputato la pena, concordata a norma dell’articolo 444 c.p.p., per il reato di cui all’art. 609 undeces c.p. (adescamento di minori).
Con la suddetta sentenza il giudicante condannava l’imputato, altresì, al pagamento delle spese processuali per l’avvenuta costituzione di parte civile nella specifica udienza ex 447 c.p.p.
L’imputato proponeva ricorso alla Suprema Corte lamentando, quale unico motivo di doglianza, l’erronea condanna al pagamento delle suddette spese processuali per la costituzione della parte eventuale in tale sede ritenendo illegittima la statuizione del giudice catanese.

La pronuncia

Il ricorso appare fondato.
Il ragionamento dei giudici romani prende abbrivio dall’analisi dell’ultima parte del comma 2° dell’articolo 444 c.p.p. per il quale “se vi è costituzione di parte civile, il giudice non decide sulla relativa domanda. L’imputato è tuttavia condannato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, salvo che non ricorrano giusti motivi per la compensazione totale o parziale”.
La suddetta disposizione viene recepita in ossequio alla granitica decisione della Corte Cost. n. 443 del 1990 che dichiarava illegittimo l’articolo 444 c.p.p. nella parte in cui non riteneva di dover ristorare il danneggiato, legittimamente costituitosi parte civile all’interno di un procedimento definito, successivamente, con l’applicazione della pena su richiesta delle parti.
La Corte Costituzionale, dando rilievo al dettato di cui all’odierno art. 79 c.p.p. per il quale “La costituzione di parte civile può avvenire per l’udienza preliminare e, successivamente, fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall’articolo 484” pone l’accento su un momento costitutivo in cui il danneggiato da reato, attraverso la costituzione, permane nell’aspettativa legittima di un concreto esercizio del suo diritto al risarcimento del danno subito o alle restituzioni.
Un errore di “tempismo”, pertanto, quello della costituzione avvenuta all’udienza ex 447 c.p.p. in quanto il danneggiato, «conoscendo in partenza l’oggetto del giudizio, ristretto alla decisione circa l’accoglibilità della richiesta di applicazione della pena su cui è intervenuto il patteggiamento tra imputato e pubblico ministero, non ha ragioni giuridiche per costituirsi parte civile» (in tal senso Cass. Pen. Sez. U, n. 47803 del 27/11/2008, D’Avino, Rv. 241356).
Trovava anche nel caso di specie applicazione il principio per cui all’udienza fissata in sede di indagini preliminari ex 447 c.p.p. non è consentita la costituzione di parte civile in quanto essa risulterebbe atto processualmente superfluo: se la richiesta concordata tra PM ed imputato fosse accolta, difatti, il gip non potrebbe pronunciarsi sulla questione civile mentre, se l’accordo avesse esito negativo, il danneggiato da reato potrebbe comunque costituirsi alla successiva udienza preliminare o antecedentemente all’apertura del dibattimento.
Dal principio sopra espresso consegue che l’errata costituzione non dia diritto al danneggiato per la restituzione delle spese sostenute essendo queste, giocoforza, ricollegate alla legittimità della costituzione stessa.
Per la Suprema Corte, in conclusione, non può essere posto a carico dell’imputato, anche in termini di costi e di spese sostenute, un atto processualmente inutile e privo di efficacia, illegittimo in quanto assolutamente ininfluente nella specifica udienza in questione.

indagini-preliminari-richiesta-di-applicazione-della-pena-costituzione-della-parte-civile-impossibilita-pagamento-delle-spese-illegittimita

Avv. Giorgio Crepaldi

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Rovigo. È cultore della materia in Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Ferrara.

Il TAR Lazio, Latina sezione I, con la sentenza n. 255, depositata in data 5 Aprile 2019, ha ritenuto che il manufatto realizzato per il ricovero di una caldaia va qualificato come vano tecnico e pertanto sottratto all’obbligo della previa acquisizione del permesso di costruire, tenuto conto della sua destinazione e delle dimensioni minime.

Il fatto

Il Comune di Alatri ordinava la demolizione di un “manufatto con struttura in alluminio fissato in terra di forma rettangolare con sovrastante copertura con la messa in opera all’interno di una caldaia a pellet e con la messa in opera di una canna fumaria esterna realizzata per tutta l’altezza del fabbricato della dimensione di mt 1,60 x 0,85 per alt. 2,40 e mc 3,40”.

La pronuncia

Secondo la giurisprudenza della sezione deve ritenersi esclusa dal regime di applicabilità dell’art. 31 D.P.R. n. 380 del 2001 la copertura metallica posta a protezione della caldaia, che ha le caratteristiche di un volume tecnico, per cui il manufatto deve avere un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo dell’abitazione principale e di proporzionalità tra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti; inoltre, tali opere non devono poter essere ubicate all’interno dell’abitazione.

La nozione di volume tecnico riguarda solamente le opere edilizie prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto finalizzate a contenere impianti serventi una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa.

Nel caso di specie la copertura realizzata ha dimensioni ridotte (meno del 2% della cubatura dell’immobile) e la sua unica funzione è di protezione della caldaia posta al suo interno e a servizio dell’abitazione principale.    

Sentenza TAR Lazio, sez. Latina, n. 255_2019

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

Il Tribunale di Pordenone, con ordinanza del 13 marzo 2019, è stato il primo in Italia che ha deciso in merito allo scioglimento dell’unione civile con relativa attenzione al trattamento economico.

Il fatto

Una coppia di donne, già conviventi da tre anni, a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 76/2016, hanno deciso di unirsi civilmente presso il Comune di Pordenone.

Una delle due donne ha deciso di spostarsi da Venezia a Pordenone, accettando il lavoro meno remunerativo, pur di instaurare un rapporto stabile e di convivenza con l’altra donna.

Decorsi due anni, una donna ha deciso di interrompere l’unione, proponendo di aderire alla dichiarazione unilaterale di volontà disciplinata dall’art. 24 della suddetta Legge.

L’altra convivente non ha aderito alla dichiarazione nel termine dei tre mesi, venendo, così, depositato il ricorso per lo scioglimento.

La pronuncia 

Il Presidente del Tribunale, valutate le prove, ha disposto l’assegno divorzile per la partner economicamente più debole e per il mutamento di vita scelto per la convivenza della coppia.

Per tale motivo, si è fatto riferimento non solo alla natura assistenziale e a quella perequativa-compensativa, ma anche in considerazione del cambiamento di attività lavorativa, in minus, della partner.

scioglimento-unione-civile-verbale-1

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 13112018-_DSC3781-1030x716-300x209.jpg

 

Il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari in favore di un cittadino extracomunitario, coniuge di un cittadino italiano, non necessita né del requisito oggettivo della convivenza tra gli stessi, né di quello del pregresso regolare soggiorno del richiedente.

Il fatto

Una cittadina marocchina ha contratto matrimonio con un cittadino italiano e ha ottenuto il permesso di soggiorno per motivi di famiglia, con validità quinquennale.

In prossimità della scadenza, la stessa ha chiesto il rinnovo mediante rilascio del titolo permanente.

La Questura di Foggia ha rigettato la richiesta, avendo rilevato la carenza della convivenza coniugale.

Ella ha, dunque, impugnato il provvedimento di rigetto davanti all’autorità giudiziaria.

Sia il Tribunale di Foggia, in primo grado, sia la Corte d’Appello di Bari, in secondo, tuttavia, non hanno accolto le ragioni della cittadina extracomunitaria.

Questa ha, allora, promosso ricorso per cassazione, in quanto il requisito dell’effettiva convivenza non sarebbe richiesto dalla legge per ottenere il permesso di soggiorno.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10925, pubblicata il 18 aprile 2019, ha accolto le ragioni della ricorrente e ha dichiarato la nullità del provvedimento di rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di famiglia emesso dalla Questura di Foggia.

Ai sensi del D.Lgs. 30/2007, infatti, non risulta che la convivenza effettiva sia un criterio di riconoscimento iniziale o di conservazione del titolo di soggiorno.

È, invece, tuttora vigente il divieto di abuso del diritto e di frode, realizzabili mediante matrimoni fittizi contratti all’esclusivo fine di aggirare la normativa in materia di immigrazione.

Nel caso in esame, tuttavia, la Questura non ha contestato il carattere fittizio del matrimonio, bensì la diversa condizione della convivenza, che non costituisce però requisito oggettivo del diritto al soggiorno.

Il provvedimento, pertanto, risulta essere irrimediabilmente viziato.

Cass_10925_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 2480 del 29.01.19, ha specificato che la mancata richiesta di un contributo al mantenimento in sede di separazione, non preclude il riconoscimento di un assegno in sede di divorzio. Anzi, rappresenta un valido indicatore di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a procurare elementi valutativi sulle condizioni economiche dei coniugi.

Il fatto

A seguito della domanda di divorzio proposta dal marito nei confronti della moglie, il Tribunale di Ravenna, all’esito degli accertamenti disposti tramite Guardia di Finanza, determinava in euro 1.000,00 l’assegno divorzile a carico del marito nei confronti della moglie e in euro 1.300,00 l’importo da lui dovuto quale contributo economico per il figlio.

La Corte D’Appello di Bologna con sentenza 7.11.2014 riduceva l’assegno divorzile determinato dal Tribunale di Ravenna, evidenziando le “poliedriche capacità imprenditoriali” e la percezione di un reddito superiore a quello effettivamente dichiarato della moglie, riducendolo così, in euro 600,00. Per contro, non veniva accolta la riduzione dell’assegno in favore del figlio.

-La moglie, avverso tale sentenza ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi (1- violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. per aver ritenuto che la stessa godesse di redditi maggiori di quelli dichiarati, nonostante le indagini della Guardia di Finanza non avessero autorizzato tale conclusione 2- violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c. per aver valutato documentazione prodotta tardivamente 3- violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e art 116 c.p.c. per erronea applicazione delle norme in tema di prova presuntiva 4- violazione del principio perequativo previsto in tema di assegno divorzile.

-Il marito ha resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale per tre motivi, denunciando da opposta prospettiva le medesime statuizioni: a) mancata valutazione della documentazione in atti attestante l’autosufficienza economica della moglie b) omesso esame del fatto decisivo relativo alla mancata previsione di un assegno di mantenimento in sede di separazione consensuale” e violazione art. 5 L. 898/70.

La pronuncia

Le contrapposte censure in riferimento ai presupposti dell’assegno divorzile, per la corte sono fondate quelle della moglie e infondate quelle del marito.

La Cassazione, che è già intervenuta per definire e delineare la funzione e le caratteristiche dell’assegno divorzile (S.U. n. 11490 del 1990, Sez. I n. 11504 del 2017), con una recente sentenza, le Sezioni Unite n. 18287 del 2018, affermano che: “l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi o all’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive del coniuge richiedente sia da riconnettere alle caratteristiche ed alla ripartizione dei ruoli durante lo svolgimento della vita matrimoniale e da ricondurre a determinazioni comuni, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età di detta parte”.

All’assegno divorzile, dunque, oltre alla natura assistenziale, deve attribuirsi sia una natura perequativo-compensativa, che permette al coniuge richiedente, il raggiungimento di un reddito adeguato all’apporto fornito nella realizzazione della vita familiare, sia una funzione equilibratrice, che permette di valorizzare il ruolo e il contributo fornito dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio familiare.

La corte di cassazione, inoltre, specifica che: “la mancata richiesta di assegno di mantenimento in sede di separazione non preclude di certo il suo riconoscimento in sede divorzile, ma può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi alle condizioni economiche dei coniugi (Cass. 11686 del 2013)”.

Pertanto, accoglie il quarto motivo del ricorso principale, rigetta il primo e il terzo del ricorso incidentale, assorbiti tutti gli altri, cassa e rinvia alla Corte D’Appello di Bologna in diversa composizione.

Sentenza2480

Dott. Tommaso Carmagnani

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa di diritto civile, con maggior riguardo al diritto di famiglia.

L’inserimento di foto di minori sui social network deve considerarsi un’attività in sé pregiudizievole, in ragione delle caratteristiche proprie della rete internet.

Il fatto

All’esito di un divorzio, i figli sono stati assegnati congiuntamente ai genitori, con collocazione presso la madre.

Già prima dello scioglimento del matrimonio, la nuova compagna del padre ha condiviso ripetutamente sui social network fotografie dei figli minorenni degli ex coniugi.

Nonostante le diffide, sia verbali sia scritte, inviate alla signora, questa ha continuato a porre in essere il comportamento pregiudizievole nei confronti dei minori.

La madre ha, quindi, adito il Tribunale di Rieti, in via d’urgenza, per ottenere l’opportuna tutela nei confronti degli interessi dei propri figli.

La pronuncia

I giudici laziali, con la sentenza del 7 marzo 2019, hanno ritenuto fondata la progettazione della ricorrente.

La tutela della vita privata e dell’immagine dei minori è disciplinata, nel nostro ordinamento, dall’art. 10 c.c., dal Codice della Privacy e dalla Convenzione di New York del 1989.

Secondo l’Unione Europea, i minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali. Essi possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia e dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali.

Inoltre, “l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati, come ripetutamente evidenziato dagli organi di polizia (…) il pregiudizio per il minore è dunque  insito nella diffusione della sua immagine sui social network“.

Di conseguenza, la compagna del padre è stata condannata  alla rimozione delle immagini relative a questi ultimi e alla contestuale inibitoria della futura diffusione di tali immagini, in assenza del consenso di entrambi i genitori

Tribunale di Rieti

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La Seconda sezione civile, della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 8277/2019, depositata in data 25 marzo 2019, ha cassato la sentenza della Corte territoriale precisando che deve verificare la soglia di tollerabilità delle immissioni di alcuni pali dell’alta tensione installati, da parte di una Società, nella parte retrostante di due appartamenti in condominio. 

Il fatto

I proprietari degli appartamenti in condominio hanno sostenuto che durante una notte, degli operai di una Società confinante con il rispettivo fabbricato, hanno installato dei pali dell’alta tensione.

A detta dei proprietari, tali installazioni abusive, emettevano radiazioni lesive per la salute, chiedendo la condanna alla rimozione e al risarcimento danni.

Il Tribunale prima e la Corte d’appello poi, hanno accolto le domande dei ricorrenti condannando la Società. 

La pronuncia 

I giudici dell’appello, hanno applicato il principio di precauzione sostenendo che, anche se non vi sono prove che statuiscono il nesso di causalità, il danno alla salute si reputa presunto anche se la scienza medica non ha riscontrato effetti negativi con l’esposizione dell’uomo ai campi elettromagnetici.

In conclusione, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza a diversa composizione della Corte d’appello, non avvallando la decisione dei giudici del secondo grado.

document jf

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 13112018-_DSC3781-1030x716-300x209.jpg