Gli obblighi di tenuta dei registri dei prodotti vitivinicoli sono funzionali a garantire la totale ed integrale autenticità delle operazioni di vinificazione finanziate a livello comunitario.

Ove il beneficiario, in violazione dei predetti obblighi, ometta di annotare la marcatura dei contenitori utilizzati per le operazioni di arricchimento del vino e, quindi, esponga dati e notizie oggettivamente falsi, è tenuto alla restituzione dell’aiuto ricevuto a norma dell’art. 2 della l. n. 898 del 1986.

Il fatto

Un associazione tra produttori ha percepito aiuti comunitari per l’arricchimento del vino e del mosto nella campagna viticola 1994/95.

L’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura ha citato in giudizio l’azienda agricola per ottenere la restituzione delle somme indebitamente trattenute da quest’ultima, in quanto la stessa ha commesso irregolarità nelle operazioni di arricchimento del vino, non annotando la marcatura delle vasche nell’apposito registro.

Il Tribunale di Roma non ha accolto la domanda.

La Corte d’Appello di Roma, invece, ha condiviso le ragioni dell’Agenzia.

La società ha, quindi, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Con la sentenza n. 18701, pubblicata il 22 settembre 2015, la Suprema Corte di Cassazione ha definitivamente condannato l’associazione tra produttori a restituire gli aiuti comunitari percepiti.

L’accertata mancanza della marcatura delle vasche di arricchimento di vino e mosti costituisce un adempimento necessario a garantire, anche in virtù della successiva commercializzazione, la totale ed integrale autenticità delle operazioni di verificazione, finanziate a livello europeo.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La Sezione Sesta Civile della Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9065/2019, depositata in data 02 aprile 2019, non ha riconosciuto il risarcimento danno al marito che è stato tradito dalla moglie fedifraga. 

Il fatto

In primo grado, il Tribunale, ha accolto le pretese risarcitorie fatte valere dal marito che ha scoperto la relazione extraconiugale della moglie.

Oltre tutto, lo stesso, ha dovuto subire lo shock della scoperta che il figlio nato dalla moglie non è il suo.

La pretesa risarcitoria accolta dal Tribunale, è stata rigettata dalla Corte di Appello, poiché ritenuta priva di fondamento.

La pronuncia 

Gli Ermellini hanno avvalorato quanto disposto dalla Corte di Appello, affermando che non vi sono i presupposti per mettere in discussione le valutazioni e i fatti valutati dai giudici dell’appello. 

In conclusione, è stato ritenuto irrilevante il venire meno della comunione spirituale tra i coniugi, i comportamenti della moglie contrari alla vita coniugale e che il figlio è frutto della relazione extraconiugale della donna.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Con la sentenza n. 7641 del 19 marzo 2019, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad un dipendente che, sotto infortunio con indicazione di riposo e cure, svolgeva una seconda attività lavorativa, violando così gli obblighi contrattuali di diligenza, fedeltà, correttezza e buona fede.

Il fatto

I primi due gradi di giudizio di merito hanno confermato la liceità del recesso datoriale comminato ad un dipendente, il quale svolgeva durante il periodo di assenza per morbosità altra attività subordinata, nello specifico guidava automezzi ed effettuava operazioni di scarico/carico di cerchi in lega per autovetture, compromettendo e ritardando la guarigione.

L’ex dipendente proponeva ricorso in Cassazione ed il datore di lavoro si costituiva tramite controricorso.

La pronuncia

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso per cassazione, motivando quanto segue.

Secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, correttamente condiviso dalla Corte d’Appello di Napoli, lo svolgimento di una seconda attività lavorativa subordinata, durante il periodo di assenza per infortunio, integra una grave violazione degli obblighi contrattuali “di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio. (Cass. n. 26496/2018; conforme, fra le più recenti, Cass. n. 10416/2017)”.

Ne consegue la legittimità del licenziamento per giusta causa per notevole inadempimento contrattuale, a prescindere dalla previsione di tale fattispecie nel contratto collettivo o nel codice disciplinare.

Sentenza n. 7641 19 marzo 2019

Dott. Dusko Kukic

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, con la tesi finale in diritto del lavoro, “il potere di controllo sul prestatore di lavoro”, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Vicenza, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa prevalentemente di diritto del lavoro.

Nel procedimento di mediazione obbligatoria disciplinato dal D.Lgs. 28/2010, è necessaria la comparizione personale delle parti davanti al mediatore, assistite dal difensore. Qualora quest’ultimo sia munito di apposita procura speciale sostanziale, egli può anche sostituire la parte.

La condizione di procedibilità può ritenersi realizzata al termine del primo incontro davanti al mediatore se una o entrambe le parti comunichino la propria indisponibilità di procedere oltre.

Il fatto

Il proprietario di un’unità immobiliare ha chiesto al Tribunale di Udine di dichiarare la risoluzione del contratto di locazione stipulato con un conduttore per la mancata prestazione del deposito cauzionale.

L’inquilino si è costituito eccependo l’improcedibilità della domanda per mancato previo esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione, previsto dal D.Lgs. 28/2010.

Su invito del giudice, si è avviata, dunque, tale procedura.

Al primo incontro hanno partecipato i soli procuratori delle parti, che hanno chiesto un breve rinvio.

Successivamente, gli stessi legali hanno comunicato telefonicamente al mediatore l’impossibilità delle parti di raggiungere un accordo stragiudiziale.

Il secondo incontro, dunque, non si è mai tenuto.

All’esito del procedimento giudiziale, il Tribunale ha dichiarato l’improcedibilità della domanda per la mancata sussistenza della condizione di procedibilità.

Questa sentenza è stata confermata dalla Corte d’Appello di Trieste.

Il proprietario dell’immobile ha, quindi, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

 Con la sentenza n. 8473, pubblicata il 27 marzo 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha risolto due questioni giuridiche:

  • la parte che propone la mediazione è tenuta a comparire personalmente davanti al mediatore affinché il tentativo si possa ritenere compiuto?

L’art. 8 del D.Lgs. 28/2010 ha previsto espressamente che al primo incontro davanti al mediatore debbano essere presenti sia le parti che i loro avvocati. Di conseguenza, la parte non può evitare di presentarsi davanti al mediatore mandando il solo avvocato. In ogni caso, la comparizione può essere anche delegata. E non è previsto ed escluso che la delega possa essere conferita anche al proprio difensore. A tal fine, la parte deve conferirgli una procura avente lo specifico oggetto della partecipazione alla mediazione e il conferimento del potere di disporre dei diritti sostanziali che ne sono oggetto. Resta sottinteso che la parte non possa conferire tale potere con la procura conferita al difensore e da questi autenticata, benché possa conferirgli con essa ogni più ampio potere processuale. Il conferimento del potere di partecipare in sua sostituzione alla mediazione non fa parte dei possibili contenuti della procura alle liti autenticabili direttamente dal difensore.

  • quando si può ritenere che il tentativo di mediazione obbligatoria sia utilmente concluso?

Secondo l’art. 8 predetto, la parte che intende agire in giudizio ha l’onere di dar corso alla mediazione obbligatoria, cioè di avviare la procedura e comparire al primo incontro davanti al mediatore. Durante questa riunione, il mediatore invita le parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione. Se viene dato il via per procedere alla successiva fase di discussione, il mediatore andrà avanti. Si fermerà, invece, se il potenziale convenuto non compare o dichiari di non essere interessato alla mediazione. Allo stesso modo anche l’attore può dichiarare di non volersi impegnare nella procedura. In tutte queste ipotesi, la condizione di procedibilità è soddisfatta. Non è, per contro, idonea modalità di svolgimento della mediazione la mera comunicazione di aver sondato l’altra parte e di aver concordemente escluso la possibilità di addivenire ad un accordo, perché in questo modo si elude l’onere di comparire personalmente davanti al mediatore e di partecipare al primo incontro.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La Corte d’appello di Palermo, con la sentenza n. 1331/2017, depositata in data 08 luglio 2017, ha rigettato quanto statuito dal Tribunale, affermando che non risulta equivoco, l’inserimento in etichetta, che il vino viene prodotto con l’esclusione di sostanze chimiche.

Il fatto

Una Azienda Agricola ha inserito nelle etichette delle proprie bottiglie la dicitura: “il vino viene prodotto con l’esclusione di sostanze chimiche di sintesi nella coltivazione delle uve” e di adottare “metodi particolari per rispettare al massimo la genuinità”.

Tali definizioni sono state ritenute inidonee ed equivoche nei confronti dei consumatori/lettori, poichè potrebbero ingenerare la possibilità di ritenere tali vini come biologici.

L’azienda agricola si è opposta alle sanzioni irrogate ai sensi dell’art. 1 comma 8 del D.Lgs. n. 260 del 2000, in relazione alle norme contenute nel regolamento CE 1493/1999, disposte dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali.

Inoltre, ha chiesto anche l’annullamento delle ordinanze-ingiunzione che hanno disposto la confisca di n. 2640 bottiglie di una tipologia di vino, e di altro tipo di vino con n. di bottiglie pari a 26.040, e con relativo pagamento di somme di denaro.

La pronuncia 

La Corte di appello di Palermo ha affermato che tale descrizione non può ritenersi sufficiente a far insorgere dubbi nel consumatore circa la qualità biologica del prodotto, ma, semmai, tende a mettere in evidenza le competenze enologiche e di viticultura dell’azienda agricola.

Per tale motivo, la Corte, in riforma della sentenza del Tribunale di Agrigento, ha condannato il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali  ed ha annullato le ordinanze di ingiunzione, ordinando la restituzione delle bottiglie di vino con esse confiscate e al pagamento delle spese processuali.

Vino biologico etichetta non qualifica tale vino

 

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La stipulazione di un contratto di assicurazione della responsabilità civile relativa alla circolazione di un autoveicolo è obbligatoria qualora lo stesso, pur trovandosi per mera scelta del proprietario stanziato su un terreno privato, sia ancora immatricolato in uno Stato membro dell’Unione europea e idoneo a circolare.

Il fatto

Una signora portoghese, proprietaria di un veicolo, ha cessato di guidarlo e lo ha parcheggiato nel cortile di casa, senza avviare le pratiche per il ritiro ufficiale dalla circolazione.

Nel 2006 il figlio della signora ha utilizzato l’automobile ad insaputa della madre ed è uscito di strada, provocando il decesso dei tre passeggeri.

Il Fundo de Garantia Automòvel (organismo di diritto portoghese che ha il compito di risarcire i soggetti che subiscono un danno derivante da sinistri stradali in Portogallo) ha indennizzato gli eredi degli stessi trasportati e, poi, ha agito in regresso nei confronti della proprietaria del mezzo per ottenere il rimborso della somma corrisposta.

La signora, costituitasi in giudizio, ha per contro ritenuto di non essere responsabile del sinistro e che di non essere obbligata a stipulare una polizza assicurativa per un veicolo inutilizzato.

Il giudice di primo grado ha ritenuto, invece, che sussistesse l’obbligo di assicurare il veicolo, anche per risarcire le vittime di eventuali incidenti in caso di furto.

Il tribunal da relação (Corte d’Appello) ha, però, annullato la sentenza di primo grado ritenendo che non vi fosse alcun obbligo di sottoscrivere un contratto di assicurazione per la proprietaria del veicolo.

Il Supremo Tribunal de Justiça (Corte Suprema) ha sospeso il procedimento e ha sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione relativa alla sussistenza dell’obbligo per il proprietario di un veicolo di concludere un contratto di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione del medesimo mezzo, anche qualora lo stesso, per scelta unilaterale, fosse immobilizzato fuori dalla pubblica via.

La pronuncia

La Corte, riunita in Grande Sezione, ha stabilito che ogni Stato membro debba garantire che ogni veicolo che stazioni abitualmente sul suo territorio sia coperto da un contratto stipulato con una compagnia di assicurazioni, al fine di garantire la responsabilità civile relativa allo stesso veicolo.

Alla luce di ciò, i giudici hanno precisato che un veicolo immatricolato, non regolarmente ritirato e idoneo a circolare, sia comunque soggetto all’obbligo di assicurazione enunciato all’art. 3, par. 1, della Direttiva 72/166/CEE, anche se il suo proprietario non abbia più intenzione di guidarlo e, quindi, lo abbia immobilizzato su un terreno privato.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 8275/2019, depositata in data 25 marzo 2019, ha affermato che, per la regolarità della convocazione dell’assemblea condominiale, basta la prova, inviata all’indirizzo dei condomini, della spedizione della raccomandata.

Il fatto

Un condomino ha proposto ricorso e ha sostenuto la non validità della convocazione assembleare, poiché non ha ricevuto correttamente la raccomandata.

Il Tribunale ha affermato che non è necessaria la ricezione della raccomandata, bensì basta la prova dell’invio da parte dell’amministratore.

E’ stato proposto ricorso in Cassazione dopo che la Corte territoriale ha confermato la sentenza del Tribunale.

La pronuncia 

La Cassazione ha affermato che la convocazione dell’assemblea non rientra nel novero del regime delle notificazioni, bensì nel 1335 c.c. che richiama la conoscibilità e non la conoscenza dell’atto.

Quindi, in tal caso, sarebbe stato onere del condomino dimostrare il mancato recepimento dell’atto di convocazione dell’assemblea per causa a lui non imputabile.

Per concludere, la Corte di Cassazione ha ribadito che l’atto di convocazione dell’assemblea è un atto unilaterale recettizio di natura privata.

Di talchè, il condominio avrà esclusivamente l’onere di dimostrare la data di invio dell’atto all’indirizzo del condomino.

Valida assemblea anche senza la ricezione atto, basta dimostrare l'invio

 

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La scelta operata da alcuni Comuni italiani di vietare l’ingresso agli animali sulle spiagge destinate alla libera balneazione è irragionevole ed illogica, oltre che irrazionale e sproporzionata, anche alla luce del potere della stessa Amministrazione di individuare tratti di arenile da destinare all’accoglienza degli animali da compagnia.

Il fatto

Il Comune di Latina, nel disciplinare la stagione balneare 2018, con delibera sindacale, ha vietato di condurre e far permanere qualsiasi tipo di animale, anche sorvegliato e munito di regolare museruola e guinzaglio, nelle proprie spiagge, concedendo solo la possibilità di introdurli negli stabilimenti balneari muniti di apposite zone attrezzate.

L’Associazione Earth ha promosso ricorso al T.A.R. del Lazio chiedendo l’annullamento del provvedimento, perché l’Amministrazione avrebbe dovuto individuare le misure comportamentali ritenute più adeguate piuttosto che imporre un divieto assoluto di accesso alle spiagge, il quale incide anche sulla libertà dei proprietari dei cani.

La pronuncia

I giudici amministrativi hanno accolto il ricorso perché fondato.

La delibera sindacale impugnata ha imposto irragionevolmente ai conduttori di animali il generalizzato divieto di accesso alle spiagge libere, in assenza di una motivazione che giustificasse tale scelta e senza specificare quali cautele comportamentali fossero necessarie per la tutela dell’igiene delle spiagge o dell’incolumità dei bagnanti.

Ha violato, dunque, il principio di proporzionalità, secondo il quale la P.A. deve optare, tra più possibili scelte ugualmente idonee al raggiungimento del pubblico interesse, per quella meno gravosa per i destinatari.

Il Comune per rispettare la legge avrebbe dovuto, per esempio, valutare se limitare l’accesso degli animali in determinati orari, o individuare aree all’uopo adibite.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 7190/2019, depositata in data 13 marzo 2019, ha affermato che, ai sensi dell’art. 18 della Legge Fallimentare, sia il debitore che qualunque soggetto che sia interessato ad impugnare la sentenza dichiarativa di fallimento, può esercitare l’azione se, dalla stessa, derivano “effetti riflessi negativi” morali o patrimoniali.

Il fatto

E’ stato dichiarato inammissibile, dalla Corte di Appello, il reclamo contro la dichiarazione di fallimento.

La Corte, ha precisato che colui che ha proposto il reclamo, non essendo mai stato socio né amministratore della fallita, non fosse legittimato ad impugnare la sentenza di fallimento poiché egli era solo il liquidatore della società. 

Proposto ricorso in Cassazione, il soggetto istante ha affermato l’erronea visione della Corte del riesame, poiché era stato sia amministratore della società, fino al sequestro penale delle quote della società, ma era anche il titolare delle suddette quote.

La pronuncia 

Gli Ermellini hanno precisato che l’art. 18 della Legge Fallimentare afferma che qualunque soggetto interessato, ha la legittimazione al reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento e per questo anche all’amministratore di una società di capitali.

Questo potere che viene concesso ai legittimari ha la finalità di escludere “effetti riflessi negativi” morali e patrimoniali che possono verificarsi conseguentemente alla dichiarazione di fallimento. 

La Corte precisa che, chiunque dovesse subire un danno che deriva dalla dichiarazione, non è rilevante che posizione ricopra al momento della dichiarazione. 

In conclusione, è stato accolto il ricorso dell’istante ed è stata cassata la sentenza rinviandola alla Corte d’Appello, precisando che, a prescindere dalla carica ricoperta dal soggetto, se viene emesso un provvedimento che va a danneggiare il capitale sociale e il compendio aziendale vi è la possibilità di ricorrere.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Nel corso di un giudizio di opposizione al verbale di accertamento di violazione del Codice della Strada, il giudice è tenuto ad accertare, se contestato, che tale strumento sia stato sottoposto alle verifiche di funzionalità e taratura.

Il fatto

Un automobilista ha ricevuto la notifica di un verbale di accertamento di violazione del Codice della Strada per aver superato il limite di velocità.

Convinto delle proprie ragioni, ha promosso ricorso avverso detto verbale presso il Giudice di Pace di Modena che, però, non è stato accolto.

Ha, allora, proposto appello avverso la sentenza di rigetto ma, tuttavia, anch’esso è stato respinto.

Il Tribunale di Modena, in veste di giudice di secondo grado, infatti, ha ritenuto che la corretta installazione ed il corretto funzionamento dell’autovelox fossero attestati nel verbale della Polizia Locale e che tale attestazione costituisse, in mancanza di allegazione di indici concreti di non corretto funzionamento del dispositivo, prova sufficiente della corretta installazione e del corretto funzionamento dello stesso. L’Amministrazione interpellata, pertanto, non potrebbe onerarsi di produrre un documento di attestazione che duplichi quello già in atti.

L’automobilista si è visto costretto a promuovere ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte ha accolto i motivi della domanda perché fondati.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 113/2015, ha stabilito il principio secondo il quale, in caso di contestazioni circa l’affidabilità dell’apparecchio, il giudice è tenuto ad accertare se lo stesso fosse sottoposto alle periodiche verifiche di funzionalità e taratura.

Nel caso di specie, i giudici del merito non hanno fatto buon governo di detto principio escludendo la necessità di detta verifica.

Di conseguenza, la Cassazione ha rinviato al Tribunale di Modena per l’annullamento della sanzione amministrativa inflitta a causa della mancata produzione in giudizio, da parte della Pubblica Amministrazione, dei certificati di taratura e di omologazione del tutor.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.