Con la ordinanza n. 25134/2018, la Sesta Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione, ha stabilito che se il figlio minore vive in un contesto agiato, il Giudice deve prendere in considerazione lo stile di vita tenuto durante la permanenza presso la casa familiare e le disponibilità economiche dei genitori; per tale motivo, non potrà essere utilizzato un criterio generale ed equitativo se il figlio ha vissuto in un ambiente particolarmente abbiente.

Il fatto

Il caso di specie, ha riguardato l’affidamento e il mantenimento di un figlio nato da due genitori non coniugati.

Nei primi due gradi di giudizio è stato confermato che il minore doveva essere affidato in modo condiviso ad entrambi i genitori e, la Corte d’appello di Brescia, ha precisato che la collocazione preminente del minore era presso la madre, gravando così sul padre, una maggiorazione dell’assegno di mantenimento, ricalcolato da euro 800,00 a Euro 1.500,00 mensili.

Il padre ricorre in Cassazione, portando all’attenzione due motivi: in primis, affermando che non è stato posto in essere alcun tipo di valutazione che riguarda lo stile di vita del minore, ed è stato aumentato, così, l’assegno di mantenimento, inoltre, senza fare nessuna analisi e/o raffronto sulla dichiarazione dei redditi della coniuge, ma sono state precisate, solo, le risorse economiche paterne.

In secundis, il Giudice, non ha garantito la bigenitorialità e la corretta applicazione delle norme sull’affido condiviso, poiché ha statuito che la collocazione del minore fosse stabilita presso la madre, non permettendo quanto previsto dagli artt. 147 e 148 del c.c., per cui: cura, educazione ed istruzione.

La pronuncia

La Cassazione, in prima analisi, ha accolto il motivo proposto dal ricorrente.

Gli stessi Ermellini, sostengono che la corte di Appello non abbia valutato i principi del caso in oggetto; hanno affermato che non sono state valutate le esigenze di un bambino di una famiglia agiata, facendo esclusivamente ricorso ad un mero principio equitativo per la determinazione dell’assegno di mantenimento.

Riguardo al secondo motivo di ricorso, la Cassazione ha affermato che il fatto che il minore ha avuto il domicilio stabile presso il genitore con il quale ha vissuto prevalentemente, è stato ritenuto, ai fini della crescita, maggiormente preferibile stante la crisi che ha coinvolto il nucleo familiare.

In sostegno di tale ultimo punto, la Corte di Appello, ha svolto delle indagini peritali, perciò il provvedimento è stato ritenuto preciso e non lacunoso.

Studio Legale Damoli

sent mantenimento minore famiglia benestante

Con la recente ordinanza n. 966 del 16 gennaio 2019, la Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione ha ribadito il consolidato orientamento secondo il quale, nell’ambito dell’usucapione di beni ereditari, non sono necessari atti di interversione del possesso.

Il fatto

Alla morte del padre, un figlio ha citato in giudizio gli altri due fratelli per ottenere lo scioglimento della comunione ereditaria, con rendiconto.

Uno dei convenuti, costituitosi in giudizio, ha chiesto l’accertamento in via riconvenzionale dell’acquisto per usucapione della proprietà dell’immobile nel quale ha vissuto fino ad allora.

La Corte d’Appello di Venezia, accogliendo l’impugnazione avverso la sentenza del Tribunale di Vicenza, ha respinto detta domanda di acquisto della proprietà a titolo originario.

Il soccombente, pertanto, ha promosso il giudizio di legittimità ritenendo che la domanda di usucapione dei beni ereditari non richiedesse la sussistenza di alcun atto di interversione del possesso.

La pronuncia

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso in quanto infondato.

I giudici del Palazzaccio, pur accogliendo in punto di diritto la posizione del ricorrente, hanno ritenuto che “la Corte d’Appello non ha fondato la decisione sul rilievo che non vi fosse prova di atti di interversione del possesso – che non sono richiesti ai fini dell’usucapione di beni ereditari -, bensì sul rilievo che non fosse provato il possesso ad excludendum, vale a dire una situazione nella quale il rapporto materiale del coerede con i beni ereditari sia tale da escludere gli altri coeredi dalla possibilità di analogo rapporto“.

È stato quindi ribadito il principio, già affermato tra le altre da Cass. n. 10734/2018, secondo il quale il coerede che dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso.

L’art. 714 c.c., infatti, non richiede alcun atto di interversione.

Al fine di usucapire un bene facente parte di un asse ereditario, allora, occorre ed è sufficiente estendere il possesso in termini di esclusività o ad excludendum: il coerede deve godere del bene con modi incompatibili con la possibilità di godimento altrui.

Studio Legale Damoli

Cassazione_966_2019

Con la recente sentenza n. 1028 del 16 gennaio 2019, la Sesta Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il principio (già espresso, da ultimo, in Cass. n. 11028/2016) secondo il quale per privare di valore probatorio un foglio firmato totalmente o parzialmente in bianco, è necessaria la querela di falso e non il semplice disconoscimento di scrittura privata.

Il fatto

Nell’ambito di una compravendita di un’autovettura, il rivenditore ha consegnato l’automobile all’acquirente, provvedendo anche ad effettuare il passaggio di proprietà, mentre quest’ultimo ha pagato il prezzo del bene ed ha consegnato una fotocopia della propria patente, sottoscrivendola e indicando il proprio numero di telefono.

In un secondo momento, il commerciante ha riportato su questo foglio, di suo pugno, alcune righe di testo per obbligare il compratore a pagare un prezzo superiore rispetto a quello pattuito. Poi lo ha citato in giudizio per ottenere il pagamento, per l’intero, dell’importo maggiorato.

Il cliente, costituitosi in giudizio, ha eccepito l’avvenuto pagamento della minor somma realmente pattuita e ha disconosciuto, ai sensi dell’art. 214 c.p.c., il contenuto della scrittura privata intercorsa tra le parti.

Il Tribunale e, poi, la Corte d’Appello di L’Aquila hanno accolto la domanda del concessionario, condannando l’acquirente alla corresponsione, per l’intero, dell’importo più elevato.

La pronuncia

Anche i giudici del Palazzaccio hanno dato ragione al venditore, in quanto il compratore ha errato nella scelta dello strumento processuale: anziché proporre il disconoscimento della scrittura privata, avrebbe dovuto proporre la querela di falso.

Sul documento in questione, infatti, vi è rappresentata la copia fotostatica della patente del cliente, la sua sottoscrizione ed il suo recapito telefonico, oltre al testo riportato dal venditore. L’acquirente non ha contestato l’autenticità della firma collocata in calce alla scrittura, riconoscendo come proprio anche il documento d’identità raffigurato, ma ha unicamente disconosciuto il contenuto dell’atto. In sostanza, ha negato formalmente che il testo del documento fosse scritto di suo pugno, ma ha confermato che la sottoscrizione fosse la sua.

Quest’ultima, tuttavia, ai sensi dell’art. 2702 c.c., “vale ad ingenerare una presunzione iuris tantum di consenso del sottoscrittore al contenuto dell’atto e di assunzione di paternità dello scritto indipendentemente dal fatto che la dichiarazione non sia stata vergata o redatta dal sottoscrittore“.

Pertanto, per contestare la verità del testo e superare la predetta presunzione, cioè per denunciare il riempimento abusivo di un foglio absque pactis, sarebbe stata necessaria la querela di falso, disciplinata dagli artt. 221 e seguenti c.p.c..

Studio Legale Damoli

_20190116_snciv@s62@a2019@n01028@tO.censored

Con la recente ordinanza n. 620 del 14 gennaio 2019, la Sesta Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che nel caso di condominio cd. minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, la spesa autonomamente sostenuta da uno solo di essi è rimborsabile soltanto nell’ipotesi in cui abbia i requisiti dell’urgenza, ai sensi dell’art. 1134 c.c..

Il fatto

In un piccolo complesso condominiale, composto di due sole unità immobiliari, il proprietario dell’appartamento al piano terra ha eseguito, a proprie spese, lavori di manutenzione e riparazione di un cortile e di un viale d’accesso comuni alla propria abitazione ed all’appartamento sovrastante, di proprietà esclusiva di un altro condomino.

Colui che ha sostenuto le spese ha adito il Tribunale di Nola chiedendo che il proprietario dell’abitazione posta al piano primo fosse condannato al pagamento di una somma a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali subiti, a seguito della mancata corresponsione della quota di sua spettanza.

I giudici territoriali, sia in primo sia in secondo grado, hanno rigettato la richiesta dell’attore.

La pronuncia

Anche gli Ermellini hanno respinto la domanda del proprietario dell’appartamento al piano terra, in quanto lo stesso non ha provato, nel corso dei giudizi di merito, il presupposto dell’urgenza delle opere realizzate sulla parte comune del condominio, che è invece occorrente.

L’art. 1134 c.c. riconosce il diritto ad un condomino di ottenere il rimborso delle spese dallo stesso sostenute per la gestione delle parti comuni dell’edificio, senza previa autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea, solamente nel caso in cui le stesse siano urgenti.

Secondo la Cassazione,  detta urgenza si riscontra in quegli esborsi che, da un lato, sono giustificati dall’esigenza di manutenzione e che, dall’altro lato, non possono essere differiti senza danno o pericolo fino all’ottenimento della predetta autorizzazione.

È, in ogni caso, onere di chi agisce per ottenere il rimborso delle anticipazioni, dimostrare la sussistenza di tale presupposto. Non ne è necessaria la prova, invece, solo nell’ipotesi di mera trascuranza degli altri condomini.

La regola così enunciata si applica anche al condominio minimo, la cui assemblea può ovviamente deliberare solo all’unanimità. In mancanza di accordo, tuttavia, è comunque indispensabile ricorrere all’autorità giudiziaria per ottenere l’approvazione all’esecuzione delle opere di riparazione, ai sensi dell’art. 1105 c.c..

Studio Legale Damoli

cassazione_620_2019

Con ordinanza n. 30472/2018, la Cassazione ha statuito che il danneggiato che agisce per richiedere il risarcimento del danno da occupazione di un bene condominiale, come il cortile, deve provare il pregiudizio economico subito a seguito dell’occupazione.

Il danno nascerebbe dalla perdita della disponibilità del bene, il quale perderebbe così la stessa utilità che avrebbe se fosse libero.

Per tale motivo, risulterebbe accertabile dal Giudice solo mediante presunzioni e, la liquidazione, deriverebbe da un cd. danno figurativo.

Nel caso di specie, un condominio ha citato in giudizio il proprietario di un locale commerciale sito all’interno del condominio perché ha occupato un garage dello stabile con paletti e catene, impedendo così l’accesso agli altri condomini.

Il condomino convenuto si è costituito in giudizio invocando la proprietà esclusiva del bene.

La Suprema Corte ha affermato che colui che ha subito il danno è onerato della prova del pregiudizio patrimoniale patito.

Il fatto lesivo coincide con il danno subito, quindi con l’occupazione della “res” e, una volta allegato il “danno conseguenza”, le circostanze assunte dal danneggiato verranno considerate su base presuntiva-probabilistica.

Studio Legale Damoli

Sent. cortile condominio

Con la sentenza 33155/2018 la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che è improcedibile il ricorso per Cassazione se, all’atto del deposito, il difensore non ha rispettato l’onere di depositare il provvedimento che gli è stato notificato, completo della “relata di notifica”.

La vicenda è sorta nel 2014, quando la Società s.r.l ha notificato a T.M. un atto di precetto. L’intimata propose appello agli atti esecutivi per vizi formali del precetto.

Più che per i motivi di ricorso, la Suprema Corte, per quanto riguarda la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, assume che non è stata prodotta una copia autentica della relazione di notificazione della suddetta sentenza, come richiesto dall’art. 369 c.p.c., e non tanto per la mancata produzione della copia autentica della sentenza impugnata.

Per tale motivo, gli Ermellini, hanno ritenuto il ricorso improcedibile.

Chi impugna un provvedimento per Cassazione, com’è noto, ai sensi dell’art. 326 c.p.c., ha il dovere di depositare il provvedimento che gli è stato notificato, completo di relazione di notificazione ( art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c.); nel caso di specie, alla ricorrente, le è stata notificata la sentenza d’appello per mezzo di posta elettronica certificata (PEC).

Studio Legale Damoli

inapplicab. princ non contestazione per ric notificato via pec

Con la recente ordinanza n. 31185 del 3 dicembre 2018, la Suprema Corte di Cassazione ha delineato i limiti della responsabilità di una banca per il fatto illecito commesso dai propri dipendenti.

Il fatto.

Due attori, persone fisiche, hanno convenuto in giudizio la Banca, chiedendo l’accertamento dell’insussistenza di loro obbligazioni nei confronti del medesimo Istituto di credito sulla base delle movimentazioni relative al conto corrente loro cointestato, nonché la condanna della parte convenuta al risarcimento dei danni subiti per essere stati imputati del reato di appropriazione indebita.

La banca ha chiamato in manleva due propri dipendenti, autori materiali delle condotte fonte di danno.

Il Tribunale di Lodi ha solamente accolto la domanda di accertamento negativo degli attori, rigettando la richiesta di condanna nei confronti dei dipendenti della Banca.

La Corte d’Appello di Milano ha anche condannato la Banca al risarcimento dei danni patiti dagli attori.

La pronuncia.

Sul ricorso promosso dall’Istituto, la Corte ha stabilito che “la responsabilità della banca per fatto illecito dei suoi dipendenti scatta ogniqualvolta il fatto lesivo sia stato prodotto, o quanto meno agevolato, da un comportamento riconducibile all’attività lavorativa del dipendente, e quindi anche se questi abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all’insaputa del suo datore di lavoro, sempre che sia rimasto comunque nell’ambito dell’incarico affidatogli“.

Studio Legale Damoli

document (11)

La Corte di Cassazione con sentenza n. 56962/2018, ha superato due precedenti ed opposti orientamenti.

Il fatto ha riguardato un camionista che si è messo alla guida del proprio tir, dopo le ore 22.00, con un tasso alcolemico accertato sopra quello legale, pari a 1.5 ml per litro.

Gli Ermellini hanno deciso che, per chi è stato condannato per guida in stato di ebbrezza, la sanzione accessoria della revoca della patente di guida, deve essere sospesa se è stata applicata la pena sostitutiva dei lavori di pubblica utilità.

Se ne deduce che in tal caso, la competenza a provvedere sulla sanzione accessoria della revoca della patente di guida spetta al Prefetto, e non al Giudice, in forza della norma generale di cui all’art. 224 cod. strada.

Studio Legale Damoli

_20181218_snpen@s40@a2018@n56962@tS.clean

Le Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32358, pubblicata il 13 dicembre 2018, hanno respinto il ricorso proposto da Juventus Football Club contro il C.O.N.I. ed F.C. Internazionale, confermando la sentenza della Corte d’Appello di Roma che ha definitivamente assegnato lo scudetto per la stagione 2005/06 ai nerazzurri.

Il fatto.

Come ricorderanno gli appassionati, la stagione 2005/06 del campionato di calcio di Serie A si è conclusa con la Juventus prima classificata, il Milan seconda e l’Inter sul gradino più basso del podio.

A seguito di un procedimento disciplinare per illeciti sportivi aperto nei confronti delle prime due posizionate, però, i bianconeri sono stati retrocessi in Serie B ed i rossoneri pesantemente penalizzati. Di conseguenza, nel luglio del 2006, su delibera del Commissario straordinario della F.I.G.C., il titolo di “Campione d’Italia” è stato assegnato all’Inter.

Nel 2011, la Società torinese ha chiesto alla F.I.G.C. di revocare, in autotutela, lo scudetto assegnato alla squadra di Milano, non vinto sul campo, a causa delle inchieste sorte all’epoca nei confronti di quest’ultima Società, poi tutte archiviate.

La Federazione, tuttavia, non ha accolto tale richiesta.

Così la medesima squadra di Torino si è rivolta al T.N.A.S. (Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo Sport), chiedendo la revoca sia della deliberazione commissariale, sia del provvedimento federale, oltre ad un congruo risarcimento dei danni.

Questo Collegio Arbitrale, con lodo del 15 novembre 2011, ha respinto la domanda, dichiarando la propria incompetenza a decidere. Ha ritenuto, infatti, che la richiesta, palesemente riguardante il mondo dello sport, concernesse una situazione giuridica soggettiva (formalmente e sostanzialmente) indisponibile da parte della F.I.G.C. e, pertanto, non compromettibile.

La Società torinese, allora, ha impugnato per nullità il lodo del T.N.A.S. dinanzi alla Corte d’Appello di Roma, chiedendo, anche in questa sede, la disapplicazione dei due predetti provvedimenti.

Con sentenza n. 7023 del 22 novembre 2016, i giudici romani hanno dichiarato di non poter conoscere l’impugnazione del lodo arbitrale, per difetto assoluto di giurisdizione.

La Juventus, quindi, ha proposto ricorso dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiedendo di dichiarare la giurisdizione ordinaria della Corte d’Appello di Roma, o quella amministrativa del T.A.R. per il Lazio.

La pronuncia delle Sezioni Unite.

Con la sentenza in commento è stato rigettato il ricorso in quanto dichiarato infondato.

Gli Ermellini, in particolare, dopo aver preliminarmente ribadito il principio (già sancito in Cass., SS.UU., n. 18052/2010) per il quale “la giustiziziabilità della pretesa dinanzi alla giustizia statale costituisce una questione non di giurisdizione ma di merito“, hanno confermato quanto osservato dalla Corte territoriale in materia di autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale.

Per pacifico orientamento della giurisprudenza costituzionale, infatti, le questioni riguardanti la regolarità delle competizioni ed il corretto svolgimento delle attività agonistiche sono riservate all’autonomo ordinamento sportivo. Possono essere devolute al giudice ordinario, per contro, solo le vertenze patrimoniali tra società, atleti e tesserati.

A causa, dunque, del chiaro oggetto dell’impugnazione del lodo del T.N.A.S., e cioè “l’attribuzione e la revoca (quale contrarius actus) del titolo di campione d’Italia“, le Sezioni Unite hanno definitivamente ritenuto la questione rientrante nell’autonomia dell’ordinamento calcistico e assolutamente irrilevante per l’ordinamento statale.

cassazione-civile-32358-2018 pdf

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la recente sentenza n. 31950/2018, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito l’esclusione del risarcimento danno parentale per morte del coniuge da incidente se, il marito, ha avuto una relazione extra-coniugale con nascita di un figlio.

L’incidente tra il veicolo condotto dalla moglie e il mezzo agricolo ha avuto esito drammatico e, tutti i parenti più stretti, hanno potuto legittimamente pretendere un adeguato ristoro economico per il grave danno subito. Ad eccezione del marito, al quale gli è stato negato il risarcimento, poichè aveva mantenuto una relazione extra-coniugale con conseguente nascita di un figlio tre mesi prima del decesso della moglie.

Studio Legale Damoli

document