Con la recentissima ordinanza n.17815/2019 pubblicata il 3 luglio 2019, la Corte di Cassazione ha affermato che anche il risarcimento del cd. danno futuro deve essere integrale e non può quindi essere limitato in assenza dei presupposti previsti dalla legge.

Il fatto

Nel caso affrontato dalla Suprema Corte, una signora era stata investita da un’autovettura e, in conseguenza del sinistro, aveva riportato lesioni con postumi invalidanti di natura permanente tali da limitarla nei quotidiani gesti della vita.

In ragione della mutata situazione di salute, la signora era stata costretta ad assumere una persona che le prestasse assistenza giornaliera non potendo fare affidamento sul marito ormai anziano.

La richiesta risarcitoria formulata nei confronti dell’assicurazione del veicolo antagonista e dei soggetti coobbligati in solido, pertanto, teneva conto anche delle spese che la signora stava affrontando e che, soprattutto, avrebbe affrontato in futuro, per permettersi un assistente personale.

Il Tribunale di Monza chiamato a decidere sulla richiesta di risarcimento riconosceva le voci di danno ad eccezione di quella relativa al danno futuro, cioè al risarcimento delle spese che la signora avrebbe di li in avanti sostenuto per lo stipendio dell’assistente.

Contro la sentenza del Tribunale la vittima formulava appello e la Corte di Milano investita del gravame, da un lato, riconosceva l’esistenza di un danno futuro, dall’altro, liquidava la descritta voce di danno nella minor misura del 40%. Tale riduzione, che non trovava alcuna motivazione nel testo della sentenza, pareva potersi giustificare sulla base della percentuale di invalidità permanente accertata in capo alla vittima, pari appunto al 40%.

La pronuncia

La signora proponeva quindi ricorso per Cassazione lamentando l’illegittimità della riduzione, poiché contraria al principio dell’integrale risarcimento del danno, nonché – come accennato – l’assenza di qualsivoglia motivazione a sostegno della riduzione applicata.

La Corte, in accoglimento dei motivi di ricorso, ha ribadito il principio di integrale risarcibilità del danno anche con riferimento al danno futuro ed ha affermato il seguente principio di diritto:

il danno consistente nelle spese per assistenza personale, patito dalla vittima di lesioni personali, va liquidato ai sensi dell’art. 1223 c.c. stimando il costo presumibile delle prestazioni di cui la vittima avrà bisogno in considerazione delle menomazioni da cui è afflitta, rapportato alla durata presumibile dell’esborso. Il risarcimento così determinato è dovuto per intero, senza alcuna riduzione percentuale corrispondente al grado di invalidità permanente patito dal danneggiato“.

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Avv. Alessandro Martini

Si laurea presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento nel novembre del 2011 con una tesi in diritto tributario sulla fiscalità dei nuovi strumenti finanziari partecipativi. Ad ottobre 2012 consegue un master di secondo livello presso l’Alta scuola di studi tributari A. Berliri di Bologna e si iscrive presso l’Ordine degli Avvocati di Trento nel 2017.

Nel caso di scontro tra veicoli, la presunzione di pari responsabilità prevista dall’art. 2054 c.c. ha carattere sussidiario, dovendosi applicare soltanto nel caso in cui sia impossibile accertare in concreto il grado di colpa di ciascuno dei conducenti coinvolti nel sinistro.

Il fatto

A seguito di un incidente stradale tra un ciclomotore ed un autocarro, il conducente del primo ha citato in giudizio il conducente del secondo per ottenere il risarcimento dei danni patiti, comprensivi della perdita della capacità lavorativa specifica riportata.

Sia in primo grado, sia in appello, i giudici di merito hanno accolto le sue richieste, condannando controparte a risarcirgli il danno, ma hanno accertato nei suoi confronti un concorso di colpa nella causazione del sinistro stradale, che ha comportato la riduzione proporzionale (nella misura del 50%) dell’importo spettantegli.

Il motociclista, allora, ha promosso ricorso per cassazione, ritenendo che l’invasione della corsia di marcia opposta fosse sempre vietata e pertanto non potesse mai sussistere la corresponsabilità dei conducenti dei contrapposti veicoli.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 18917, pubblicata il 15 luglio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando dunque la sentenza di secondo grado.

La Corte d’Appello, in particolare, ha correttamente accertato la sussistenza di una condotta colposa in capo ad entrambi: al conducente del ciclomotore, per non aver tenuto la destra e per non aver moderato la velocità; al conducente dell’autocarro, per non aver a sua volta moderato la velocità e per aver parzialmente, in corrispondenza della curva, invaso la corsia avversaria.

Sono stati, pertanto, ritenuti entrambi responsabili nella misura del 50%, non essendo emerso nel corso del giudizio alcun elemento per una diversa ripartizione del concorso di colpa.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

In tema di imposta di registro, l’agevolazione cd. prima casa è subordinata alla dichiarazione del contribuente, nell’atto di acquisto, di svolgere la propria attività lavorativa nel comune dove è ubicato l’immobile (requisito alternativo a quello del trasferimento della residenza anagrafica nello stesso entro diciotto mesi), poiché le agevolazioni sono generalmente condizionate ad una dichiarazione di volontà dell’avente diritto di avvalersene e, peraltro, l’Amministrazione finanziaria deve poter verificare la sussistenza dei presupposti del beneficio provvisoriamente riconosciuto.

Il fatto

Due contribuenti hanno acquistato un immobile nel Comune un cui uno di essi svolgeva la propria attività lavorativa.

Nell’atto di compravendita, gli stessi hanno dichiarato, al fine di usufruire delle agevolazioni “prima casa”, di impegnarsi a stabilire la residenza nel comune di ubicazione dell’immobile nel termine di diciotto mesi dall’acquisto.

Gli stessi, tuttavia, non hanno mai stabilito in quel luogo la loro residenza.

L’Agenzia delle Entrate, allora, ha notificato ai contribuenti un avviso di liquidazione di maggiore imposta IVA a seguito della revoca dei benefici fiscali della prima casa.

Gli acquirenti, allora, hanno promosso ricorso dinanzi alla competente Commissione Tributaria Provinciale, in quanto l’agevolazione sarebbe loro spettata comunque per la sussistenza di una delle condizioni previste dalla legge, cioè l’ubicazione dell’immobile nel Comune dove gli acquirenti esercitano la propria attività lavorativa.

Non essendo stato accolto il ricorso, i contribuenti hanno promosso appello dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale, la quale ha dato loro ragione.

L’Agenzia delle Entrate ha, allora, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 17200, pubblicata il 26/06/2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, confermando dunque l’avviso di liquidazione della maggiore imposta notificato.

Nel caso in esame, i contribuenti hanno indicato in sede di rogito notarile, quale esclusivo presupposto per usufruire dell’agevolazione prima casa, l’assunzione dell’obbligo di trasferimento della residenza nel termine di legge, senza far menzione alcuna del requisito alternativo del luogo lavorativo.

Pertanto, in assenza di formale richiesta da parte del contribuente, nell’atto di acquisto, dell’agevolazione fiscale in base a quest’ultimo requisito, è ritenuto legittimo l’avviso di liquidazione con il quale l’amministrazione finanziaria ha rilevato il mancato tempestivo trasferimento della residenza anagrafica annunciato.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

In un contratto avente ad oggetto un pacchetto turistico “tutto compreso”, l’organizzatore ed il venditore assumono specifici obblighi, soprattutto di tipo qualitativo, riguardo a modalità di viaggio, sistemazione alberghiera e livello dei servizi, che vanno esattamente adempiuti. Pertanto, ove la prestazione non sia esattamente realizzata, si configura una loro responsabilità contrattuale, salvo che forniscano la prova che l’inadempimento sia ad essi non imputabile.

Il fatto

Una giovane coppia ha acquistato da un’agenzia viaggi un pacchetto turistico del tour operator Francorosso, comprendente il trasferimento aereo e l’alloggio presso un noto albergo. Le fotografie di quest’ultimo riportate sul depliant consegnato ai clienti riproduceva una bella spiaggia dinanzi all’albergo ed un bel mare.

Giunti sul posto, tuttavia, i turisti hanno constatato che la spiaggia fosse sporca ed il mare inquinato.

Dopo aver sostenuto le spese per spostarsi in un alloggio diverso e più adeguato, i giovani hanno citato in giudizio il tour operator, chiedendo il risarcimento dei danni patiti.

Inizialmente, il Tribunale di Pordenone ha respinto la domanda, ritenendo che la pulizia della spiaggia e la purezza dell’acqua del mare non potessero essere garantiti dall’organizzatore a mezzo della stampa di un depliant pubblicitario.

La Corte d’Appello di Trieste, poi, ha invece accolto la domanda, ritenendo che il libretto illustrativo fosse effettivamente parte integrante dell’offerta contrattuale.

L’operatore turistico, allora, ha promosso ricorso per cassazione, in quanto lo stesso non avrebbe mai potuto garantire che le condizioni del mare fossero sempre ottimali.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5189, pubblicata il 4 marzo 2010, ha respinto il ricorso perché infondato.

In materia di viaggi e vacanze “tutto compreso”, in caso di mancato o inesatto adempimento delle obbligazioni assunte con la vendita del pacchetto turistico, l’organizzatore ed il venditore sono tenuti al risarcimento del danno.

Per evitare il sorgere di responsabilità a loro carico, essi avrebbero dovuto dimostrare o il caso fortuito, o l’esclusiva responsabilità del consumatore.

Nel caso di specie, dunque, il tour operator è stato condannato a risarcire il danno da vacanza rovinata.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Il professionista delegato alla vendita dell’immobile pignorato può effettuare la pubblicità solo sui siti internet elencati nell’apposito decreto ministeriale, ai sensi dell’art. 490 c.p.c..

Il fatto

Una banca ha promosso un pignoramento immobiliare nei confronti di un proprio debitore.

All’esito del procedimento di esecuzione forzata, l’immobile è stato venduto.

Il debitore, però, ha promosso opposizione agli atti esecutivi, chiedendo la nullità dell’aggiudicazione e del decreto di trasferimento, in quanto il professionista delegato alla vendita avrebbe pubblicizzato l’asta su un sito internet diverso rispetto a quelli elencati dal decreto ministeriale di cui all’art. 173 disp. att. c.p.c..

Il Tribunale di Benevento ha rigettato l’opposizione.

Il debitore, allora, ha promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18344, pubblicata il 9 luglio 2019, ha accolto il ricorso e ha, quindi, dichiarato la nullità dell’aggiudicazione e del decreto di trasferimento impugnati.

Se nel provvedimento di conferimento della delega al professionista, il giudice prevede che questi individui il sito internet sul quale effettuare la pubblicità ai sensi dell’art. 490 c.p.c., il potere di scelta del medesimo è esercitabile esclusivamente nell’ambito dei siti autorizzati.

La violazione della delega che comporti l’omissione della pubblicità obbligatoria determina la nullità dell’aggiudicazione.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Con ordinanza n. 18222/2019, depositata il 05 luglio 2019, la Corte di Cassazione, sezione I Civile, ha stabilito che riguardo alla controversia dei genitori sull’affidamento dei figli, se il giudice, con decreto, ha disposto un percorso psicoterapeutico ai genitori, questo è annullabile poiché lesivo del diritto di autodeterminazione.

Il fatto

Nel caso oggetto di controversia, in primo grado e in Corte d’Appello veniva confermato l’obbligo per una madre di effettuare un percorso psicoterapeutico per oltrepassare problematiche scaturite con la figlia.

Inoltre, veniva prescritto anche alla figlia di seguire un percorso di neuropsichiatria infantile.

La madre ricorreva in Cassazione.

La pronuncia 

La Suprema Corte, ha accolto il ricorso precisando che tale percorso imposto alla madre viola gli artt. 13 e 32, comma 2, Cost., comportando un vero e proprio condizionamento del genitore.

Tale decreto giudiziale ha vincolato la libertà di autodeterminazione della madre riguardo alla cura della propria persona.

Per tale motivo il provvedimento impugnato è stato cassato con rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Con sentenza n. 12803/2019, depositata il 14 maggio 2019, la Corte di Cassazione, sezione II Civile, ha stabilito che i condòmini, anche senza convocare l’assemblea condominiale, hanno la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto di appalto che la società ha stipulato con il condominio.

Il fatto

Nel caso di specie, alcuni condomini hanno citato in giudizio la società appaltatrice che aveva stipulato il contratto con il condominio, per la inidoneità all’uso dell’opera da essa realizzata costituita nella sostituzione della pavimentazione delle terrazze del fabbricato o, in via subordinata, il suo rifacimento a regola d’arte, e il risarcimento del danno.

In primo grado non venne accolta la domanda di risoluzione del contratto e dell’eliminazione dei vizi, però venne condannata la società a pagare 12.000,00 Euro di risarcimento danni.

La Corte territoriale, in riforma, ha condannato la società appaltatrice al rifacimento della pavimentazione delle terrazze; al contrario, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno.

La stessa Corte ha statuito che i condomini hanno la legittimazione ad agire nei confronti della società, poichè titolari esclusivi delle terrazze.

La pronuncia 

La Corte di Cassazione, ha confermato quanto stabilito dalla Corte d’Appello, precisando che la qualità di condomino è legata inscindibilmente a quella di titolare esclusivo di parte dell’edificio.

Così deciso, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della società.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Con ordinanza n. 17658/2019, depositata il 02 luglio 2019, la Corte di Cassazione, sezione III Civile, ha stabilito che in caso di sinistro stradale è esclusa la responsabilità della Provincia se la segnaletica è presente e conforme in base alle norme di legge.

Il fatto

Il caso in questione riguarda una signora che mentre conduceva il proprio scooter è caduta dopo aver perso il controllo dello stesso in una curva.

La stessa ha citato in giudizio la Provincia precisando che, la sua caduta, è stata causata da una mal segnalazione della curva.

Il Tribunale, in seguito alla c.t.u., ha affermato che tale curva non necessitava di altra segnaletica oltre quella che era già presente, poichè non era particolarmente pericolosa.

Così confermato in Corte d’appello, la conducente del ciclomotore ha proposto ricorso dinnanzi alla Suprema Corte di Cassazione.

La pronuncia 

La Corte romana non ha accolto i motivi fatti valere dalla ricorrente, in particolare quello riguardante la responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c., ormai costante la giurisprudenza che presume responsabile l’Ente solo in casi di pericolo che hanno ad oggetto la strada o le sue pertinenze, salvo che venga data la prova dell’imprevedibilità del danno.

Inoltre è interrotto il nesso di causalità tra il pericolo che si viene a creare, e il sinistro stradale, quando l’Ente ha ottemperato diligentemente al suo dovere di apposizione della segnaletica.

In conclusione, gli Ermellini hanno rigettato il ricorso con conseguente condanna al pagamento delle spese del giudizio.

Segnali stradali incidenti

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Con sentenza n. 23/2019, depositata il 26 aprile 2019, il Tribunale di Roma ha stabilito che la responsabilità contrattuale, con conseguente risarcimento del danno, dell’inadempimento dell’amministratore di condominio dei suoi doveri, è prevista solo nel caso in cui si sia arrecato un effettivo pregiudizio patrimoniale al condominio.

Il fatto

Il caso di specie riguarda un amministratore di condominio che è stato citato in giudizio da un condominio, il quale ha assunto che lo stesso professionista non ha tenuto diligentemente la contabilità condominiale e ha posto in essere gravi inadempimenti contrattuali come la mancata convocazione di assemblee ordinarie e straordinarie, e l’omesso rendimento di conti consuntivi.

L’amministratore ha contestato la domanda di appropriazione indebita di fondi condominiali ed, in particolare, l’assunta negligenza professionale nell’adempiere qaunto previsto da mandato.

La pronuncia 

 La necessità è quella, da una parte, di dare la prova della responsabilità del professionista e, dall’altra, dimostrare i danni che ha subito il condominio.

Per tale motivo il condominio deve dimostrare la mala gestio del l’amministratore con i relativi errori posti in essere, il professionista dal canto suo deve dimostrare la correttezza del suo comportomanto.

In conclusione, l’amministratore è stato condannato solo per una carenza riguardo alla gestione economica sul conto corrente condominiale.

inadempim amministratore di condominio

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La Terza Sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 17124/2018, depositata in data 17 aprile 2018, ha deciso che la conduttrice della palestra deve essere condannata per il reato di disturbo alla quiete pubblica ex art. 659 c.p..

Il fatto

Il Tribunale ha condannato la conduttrice della palestra per eccessivi rumori che hanno arrecato disturbo al riposo dei condomini dove la palestra è ubicata.

Tale rumore proveniva dall’impianto di aereazione che permetteva alla musica della palestra di diffondersi nei piani alti del condominio, creando malumori e contrasti ai condomini.

La conduttrice della plaestra ha proposto ricorso per cassazione.

La pronuncia 

La Corte di Cassazione penale, a seguito di rilevamenti effettuati attraverso consulenze tecniche, ha precisato che il rumore proveniente dalla palestra supera la normale tollerabilità, quindi, oltre al superamento dei decibel, ha verificato, nel caso di specie, la diffusa capacità offensiva del rumore.

L’amministratore del condominio, per formare, ulteriormente, il convincimento del giudice, ha raccolto le numerose lamentele dei condomini, i quali hanno affermato che l’eccessivo rumore si percepiva nell’intero edificio.

Per tale motivo la Corte ha condannato la responsabile poichè ha il dovere di gestire la palestra con le relative cautele evitando di arrecare fastidi ai condomini.

In conclusione, la conduttrice della palestra è stata condannata per il reato di disturbo alla quiete pubblica.

Palestra eccessivo rumore condannata

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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