Articoli

La responsabilità civile per i danni causati dai cani randagi è da attribuire all’ente che ha, per legge, il dovere di prevenire il pericolo specifico per l’incolumità della popolazione, cioè il compimento della cattura e della custodia dei cani vaganti.

Il fatto

A seguito di un sinistro stradale causato dall’invasione improvvisa della carreggiata da parte di un cane randagio, il danneggiato ha citato in giudizio la ASL territorialmente competente, per ottenere il risarcimento dei danni patiti.

L’Azienda Sanitaria, costituitasi in giudizio, ha eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva e ha chiamato in causa il Comune nel cui territorio è avvenuto il sinistro.

Sia il giudice di pace, in primo grado, sia il Tribunale, in grado di appello, hanno condannato in solido il Comune e la ASL a risarcire i danni all’automobilista.

La predetta Azienda ha, allora, promosso ricorso per cassazione, in quanto l’intera responsabilità avrebbe dovuto essere addossata al Comune.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione ha però respinto detto ricorso.

Infatti, secondo i giudici di legittimità, è la ASL stessa ad essere il soggetto individuato dalla normativa quale competente in materia di prevenzione del fenomeno del randagismo.

Il Comune, invece, ha unicamente il compito di prevenzione del randagismo, che si sostanzia nel controllo delle nascite della popolazione canina e felina a fini di igiene e profilassi.

Solamente la prima, di conseguenza, è responsabile civilmente per i danni arrecati da questi animali.

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

L’eventualità che tra i fruitori di un messaggio offensivo vi sia anche la persona destinataria delle offese stesse non può indurre a ritenere che sia integrato l’illecito di ingiuria, invece che il reato di diffamazione.

Il fatto

Una ragazza ha esposto querela nei confronti di un amico che, in una chat di gruppo di Whatsapp nella quale entrambi erano presenti, ha proferito verso la reputazione della prima delle offese.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione ha di recente risolto i dubbi che sussistevano circa l’inquadramento della fattispecie: cioè se la stessa integrasse il delitto di diffamazione o l’illecito di ingiuria.

Nonostante, infatti, la trasmissione/comunicazione adoperata consenta, in astratto, anche al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, il fatto che il messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori, i quali potrebbero anche venirne a conoscenza in tempi diversi, fa si che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione più ampia du quella tra offensore e offeso.

Di conseguenza, ha stabilito che la situazione di scambio comunicativo che viene in rilievo in una chat di Whatsapp non integra l’illecito civile di ingiuria, ma il delitto di diffamazione.

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Nel caso in cui il danneggiato, in seguito ad un sinistro stradale, opti per l’esercizio dell’azione risarcitoria giudiziale nei confronti dell’impresa assicuratrice del proprio veicolo (cd. procedura di indennizzo diretto), l’invio della richiesta di risarcimento dovrà essere inviata “per conoscenza” anche alla compagnia assicurativa del veicolo responsabile, a pena di improponibilità della domanda.

Il fatto

Una automobilista si è fermata per far attraversare la carreggiata a un pedone, in prossimità delle apposite strisce.

La frenata ha preso alla sprovvista la conduttrice dell’autovettura che proveniva da tergo, la quale ha dunque tamponato la prima.

A seguito della denuncia del sinistro alla assicurazione del proprio veicolo e del ricevimento del diniego di risarcimento, la danneggiata ha citato in giudizio la responsabile del sinistro e l’assicurazione di quest’ultima, per ottenere il risarcimento dei danni patiti.

Quest’ultima impresa si è costituita eccependo l’improponibilità della domanda, non avendo ricevuto, nemmeno per conoscenza, la denuncia del sinistro per cui è causa.

La pronuncia

Il giudice di primo grado ha rigettato la domanda formulata, dichiarandola improponibile, e accogliendo l’eccezione della convenuta.

La procedura di indennizzo diretto costituisce una deroga al principio per cui “chi sbaglia paga”.

Nell’indennizzo diretto, infatti, la compagnia assicuratrice del mezzo danneggiato è chiamata a rispondere, in prima battuta, in virtù di una norma speciale. In ogni caso, è fatta salva la successiva regolazione del rapporto tra le due imprese assicuratrici.

L’assicuratore del veicolo responsabile del sinistro, pertanto, deve essere messo nella concreta possibilità di valutare l’opportunità dell’intervento in causa. Ciò accadrà solamente solo nell’ipotesi in cui sia stato effettivamente informato, mediante l’invio per conoscenza della lettera di messa in mora, della verificazione dell’evento, delle modalità di accadimento dei fatti e della sussistenza di eventuali danni risarcibili.

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Il profilo inerente l’uso pubblico della strada vicinale è prioritario e dirimente ai fini della valutazione del requisito della contiguità dei fondi.

Il profilo inerente, invece, la proprietà della fascia di terreno su cui insiste la strada assume rilievo solo una volta escluso l’uso pubblico del bene.

Il fatto

Un coltivatore e proprietario diretto di un fondo agricolo ha citato in giudizio l’acquirente del fondo limitrofo, esercitando il suo diritto di riscatto, perché la vendita effettuata ha violato il suo diritto di prelazione, spettantegli in forza della Legge 590/1965.

In primo grado, il Tribunale ha accolto la sua domanda, disponendo il trasferimento in suo favore del fondo, previo pagamento del prezzo.

In secondo grado, invece, la Corte d’Appello ha rigettato la domanda di riscatto, perché non sussisterebbe alcun diritto di prelazione in capo al coltivatore, in quanto tra i due fondi vi sarebbe una strada di proprietà provata ad uso pubblico, che interromperebbe la contiguità richiesta dalla Legge 590/1965.

Egli ha, allora, promosso ricorso per cassazione, ritenendo che l’indirizzo giurisprudenziale seguito sarebbe attinente a fattispecie diverse da quelle oggetto di causa.

La pronuncia

Con la sentenza n. 6537, pubblicata il 5 aprile 2016, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

I giudici di secondo grado hanno correttamente applicato il principio secondo il quale, ai fini dell’esercizio della prelazione e del riscatto agrari, non sussiste la contiguità dei fondi quando essi siano separati da una strada, anche vicinale e non soggetta al pubblico transito.

Nel caso in esame, dunque, la strada collocata all’interno del fondo oggetto di riscatto, al confine tra le proprietà, destinata al transito pubblico, costituisce un’entità autonoma tra i fondi stessi e, quindi, ne interrompe la contiguità, comportando di conseguenza l’infondatezza del diritto vantato dall’attore.

Cass_6537_2016

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Per la configurazione del reato di cui all’art. 659 c.p., è sufficiente che i rumori siano idonei ad arrecare disturbo ad un gruppo indeterminato di persone, anche se raccolte in un ambito ristretto, come un condominio.

Il fatto

Un signore è stato imputato per il reato di cui all’art. 659 c.p. (disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone) per non aver impedito ai tre galli di sua proprietà di cantare nelle ore notturne, nonostante le molteplici segnalazioni ricevute dai vicini.

I giudici di merito, sia in primo grado, sia in appello, lo hanno condannato alla pena di 20 giorni di arresto.

Egli ha, dunque, promosso ricorso per cassazione, ritenendo che non fosse stato compiuto alcun accertamento volto a stabilire il superamento della soglia della normale tollerabilità delle emissioni sonore, che avrebbe messo in pericolo il riposo di un numero indeterminato di persone.

La pronuncia

Con la sentenza n. 41601, pubblicata il 10 ottobre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Nel caso di specie, sia l’elemento oggettivo, sia quello soggettivo sono stati ritenuti concretamente ravvisabili e, quindi, la condanna è stata confermata.

Nei confronti dell’imputato, inoltre, non possono essere riconosciute le attenuanti generiche perché ha manifestato la totale noncuranza nei confronti dei propri vicini, dimostrandosi sordo alle loro rimostranze per un lungo periodo.

Cass_Pen_41601_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Va esclusa la responsabilità dell’Ente custode allorché i danni conseguenti ad una caduta siano ascrivibili unicamente al danneggiato.

Il fatto

Un signore che stava camminando di notte, su una strada illuminata, assieme ad alcuni amici, guardando le vetrine dei negozi, è inciampato su un tombino che creava un leggero avvallamento del manto stradale.

Egli ha, dunque, citato in giudizio il Comune custode di detta strada, per ottenere il risarcimento dei danni patiti.

Le sue domande, tuttavia, sono rigettate sia in primo grado, sia in appello.

Ha, allora, promosso ricorso per cassazione, ritenendo che l’incidente fosse causato dall’anomalia della strada pubblica, avente da sola potenzialità lesiva idonea a cagionare l’evento.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 25436, pubblicata il 10 ottobre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

In materia di responsabilità da cose in custodia, la giurisprudenza di legittimità ha fissato alcuni principi:

  1. il criterio di imputazione della responsabilità fondato sul rapporto di custodia opera in termini oggettivi;
  2. il danneggiato ha solo l’onere di provare il nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno;
  3. il custode ha l’onere della prova liberatoria del caso fortuito;
  4. il caso fortuito è da intendersi da un punto di vista oggettivo, senza alcuna rilevanza della diligenza del custode;
  5. le modifiche improvvise della struttura della cosa divengono, col trascorrere del tempo, nuove intrinseche condizioni della cosa, di cui il custode deve rispondere.

Nel caso in esame, la disattenzione del passante ha di per sé il nesso eziologico tra cosa e danno e, quindi, escluso ogni responsabilità del Comune.

Cass_25436_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Per stabilire se sussiste la giusta causa di licenziamento con specifico riferimento al requisito della proporzionalità della sanzione, occorre accertare in concreto se la specifica mancanza commessa dal dipendente risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro.

Il fatto

La store manager di un negozio ha tenuto comportamenti che l’hanno condotta al licenziamento disciplinare, quali l’introdurre nel negozio medesimo una sarta per farsi confezionare un vestito identico ad un modello in vendita, lo svolgimento telefonico di attività di cartomanzia in orario di lavoro, l’aver messo da parte capi di abbigliamento destinati alla vendita, l’aver indossato capi destinati alla vendita durante l’orario di lavoro, l’essersi ripetutamente assentata dal lavoro senza autorizzazione e aver ripetutamente rimproverato e mortificato le colleghe.

Questa ha proposto reclamo dinanzi alla Corte d’Appello di Genova, la quale ha accolto le sue ragioni e ha condannato l’azienda al pagamento di un’indennità risarcitoria quantificata in 15 mensilità.

Il datore di lavoro ha, dunque, promosso ricorso per cassazione, perché i giudici di merito non avrebbero considerato le mansioni di gerente della lavoratrice e le maggiori responsabilità connesse a tale ruolo.

La pronuncia

Con la sentenza n. 24619, pubblicata il 2 ottobre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso.

I giudici del merito non hanno considerato la portata soggettiva della specifica mancanza commessa dal dipendente.

In particolare, non hanno considerato il ruolo svolto dal lavoratore, cioè quello di gerente, e le connesse responsabilità né sul piano di un più intenso obbligo di diligenza, né del dovere di comportamenti tali da costituire positivi riferimenti per i propri sottoposti.

Di conseguenza, il licenziamento disciplinare irrogato nei confronti della lavoratrice è divenuto definitivo.

Cass_24619_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

In tema di assicurazione contro i danni, l’inosservanza, da parte dell’assicurato, dell’obbligo di dare avviso del sinistro, secondo le specifiche modalità ed i tempi previsti dall’art. 1913 c.c., non può implicare, di per sé, la perdita della garanzia assicurativa, occorrendo a tal fine accertare se detta inosservanza abbia carattere doloso o colposo. 

Il fatto

Una carrozzeria, cessionaria del credito di un soggetto danneggiato a seguito di un sinistro stradale, ha citato in giudizio la Compagnia assicurativa della vettura di quest’ultimo per ottenere il pagamento del corrispettivo per le riparazioni effettuate sul mezzo.

Sia il giudice di pace, in primo grado, sia il Tribunale, in grado di appello, hanno però rigettato la domanda in quanto il soggetto assicurato avrebbe denunciato tardivamente il sinistro alla propria assicurazione, cioè oltre i tre giorni previsti dalla legge.

La carrozzeria, allora, ha promosso ricorso per cassazione, ritenendo che la tardiva comunicazione dell’evento non fosse ascrivibile al dolo dell’assicurata e che, pertanto, ai sensi dell’art. 1915 c.c., l’indennizzo avrebbe dovuto essere ridotto ma non escluso.

La pronuncia

Con la sentenza n. 24210, pubblicata il 30 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il motivo di ricorso.

I giudici hanno osservato come, da un lato, l’art. 1913, co. 1, c.c. disponga che “l’assicurato deve dare avviso del sinistro all’assicuratore (…) entro tre giorni da quello in cui il sinistro si è verificato o l’assicurato ne ha avuto conoscenza”; dall’altro lato, l’art. 1915, co. 1, c.c., preveda che “l’assicurato che dolosamente non adempie l’obbligo dell’avviso (…) perde il diritto all’indennità” e, al co. 2, che “se l’assicurato omette colposamente di adempiere tale obbligo, l’assicuratore ha diritto di ridurre l’indennità in ragione del pregiudizio sofferto”.

Alla luce di queste norme, la giurisprudenza ha stabilito il principio secondo il quale l’inosservanza, da parte dell’assicurato, dell’obbligo di dare avviso del sinistro non possa implicare, di per sé, la perdita della garanzia assicurativa. A tal fine occorre sempre accertare se detta inosservanza abbia carattere doloso o colposo, dato che nella seconda ipotesi il diritto all’indennità non viene meno, ma si riduce in ragione del pregiudizio sofferto dall’assicuratore.

Di conseguenza, la carrozzeria ha il diritto ad ottenere un indennizzo, seppur ridotto.

Cass_24210_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La surrogazione dell’INAIL è una successione a titolo particolare del solvens nel diritto di credito vantato dall’accipiens nei confronti di un terzo.

Il fatto

Nel 1994 un operaio ha riportato gravi danni alla sua persona a causa di un incidente sul lavoro.

In conseguenza di ciò, l’INAIL costituì in suo favore una rendita vitalizia.

Nel 2000, il danneggiato ha sottoscritto una transazione con uno dei corresponsabili del danno, accettando una somma di denaro a tacitazione di qualsiasi credito.

Nel 2007 ha, poi, citato in giudizio gli altri corresponsabili per ottenere il risarcimento dei danni patiti.

Nella causa è intervenuto volontariamente l’INAIL, dichiarando di volersi surrogare nei confronti dei convenuti per la somma già pagata al danenggiato.

In primo grado, il Tribunale ha rigettato la domanda dell’assicuratore sociale.

In appello, tuttavia, i giudici hanno condannato i convenuti a rivalere l’INAIL delle somme da questo pagate al danneggiato, nella misura della propria colpa.

I soccombenti, allora, hanno promosso ricorso per cassazione, ritenendo che il diritto del danneggiato fosse già estinto per transazione e, pertanto, nessuna surrogazione avrebbe potuto aver luogo.

La pronuncia

Con la sentenza n. 24509, pubblicata l’1 ottobre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

Le Sezioni Unite della medesima Corte già hanno stabilito che la surrogazione si realizza al momento del pagamento effettuato dal surrogante nelle mani del creditore originario (il danneggiato), a prescindere da qualsiasi manifestazione di volontà del danneggiato o dell’assicuratore.

In applicazione di tale principio, l’INAIL si è surrogato al danneggiato sin dal momento in cui ha costituito in suo favore una rendita vitalizia; di conseguenza, all’epoca della transazione, il credito era già stato trasferito all’INAIL; quindi il credito del danneggiato oggetto di transazione non si è estinto perché, all’epoca della sottoscrizione dell’accordo, l’INAIL era già titolare dello stesso.

Cass_24509_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Con ordinanza n. 24378/2019, depositata il 30 settembre 2019, la Corte di Cassazione, sezione II Civile, ha statuito che vengono presi in considerazione tutti i redditi, oltre quelli dichiarati e da dichiararsi, compresi quelli provenienti da attività illecite.

Il fatto

Con delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, M.A. veniva, in via anticipata e provvisoria, ammessa al patrocinio a spese dello Stato nel procedimento penale in cui era costituita parte civile.

Il Giudice delle indagini preliminari revocava con decreto tale ammissione, ritenendo che il reddito del nucleo familiare superava quello stabilito dal D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 76 e 92.

Avverso il decreto di revoca la M. ha proposto reclamo dinanzi al Presidente del medesimo ufficio giudiziario, il quale ha respinto l’impugnazione, confermando le ragioni della revoca.

Proponeva rocorso per Cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, rileva che, per richiedere l’ammissione al gratuito patrocinio, occorre tener conto di tutti i redditi, anche quelli non soggetti a tassazione, che coprono il periodo di imposta in cui sono percepiti.

La ricorrente, nell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, aveva dichiarato di non percepire alcun reddito ma di ricevere, dal coniuge separato solo un assegno di mantenimento mensile.


A tal proposito, la Corte di Cassazione si è basata anche su tale reddito mensile che percepiva la ricorrente, pertanto il ricorso veniva rigettato.

assegno mantenimento ai fini del gratuito patr

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 13112018-_DSC3781-1030x716-300x209.jpg