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La sussistenza o meno della subordinazione deve essere verificata in relazione alla intensità della etero-organizzazione della prestazione al fine di stabilire se l’organizzazione sia limitata al coordinamento dell’attività del professionista con quella dello studio, oppure ecceda le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall’interesse di quest’ultimo, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie.

Il fatto

Per un periodo di oltre 17 anni, un ragazzo ha lavorato presso uno studio legale.

Egli, rispettando i propri compiti, ha seguito i clienti e le direttive del titolare di studio (unico a firmare gli atti), ha osservato l’orario di lavoro imposto dall’organizzazione dello studio e ha svolto le mansioni di supporto a quelle dell’avvocato, sotto la vigilanza dello stesso.

Al termine del rapporto di lavoro, ha citato in giudizio il predetto avvocato per ottenere il pagamento delle differenze retributive spettantegli, potendo lo stesso rapporto essere qualificato come di lavoro subordinato.

La Corte d’Appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, ha dato ragione al praticante.

Il dominus, allora, ha promosso ricorso per cassazione, ritenendo illegittima la qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato.

La pronuncia

Con la sentenza n. 22634, pubblicata il 10 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

I giudici hanno precisato che costituisce elemento essenziale, come tale indefettibile, del rapporto di lavoro subordinato, e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo, la soggezione personale del prestatore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro.

Nel caso di specie, il rapporto tra praticante e dominus rientra in quello disciplinato dall’art. 2094 c.c., perché il primo ha lavorato all’interno dello studio del secondo, ha intrattenuto rapporti con i clienti dello stesso, ha svolto attività legale anche se privo del titolo di avvocato, di cui il dominus si è assunto la paternità, e ha ricevuto quotidiane direttive sulle attività da svolgere.

Tali elementi sono stati sufficienti a far ritenere sussistente il rapporto di subordinazione.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Con sentenza n. 38945/2019, depositata il 23 settembre 2019, la Corte di Cassazione, sezione III Penale, ha statuito che non si posso organizzare feste, presso parchi regionali, senza autorizzazione, poichè le emissioni sonore possono arrecare disturbo agli animali presenti nei parchi regionale e naturali.

Il fatto

Il Tribunale ha condannato i proprietari di un locale per avere organizzato in un’area esterna del locale pubblico (sito nel parco regionale) serate con musica ad alto volume e luci colorate, senza la regolare autorizzazione.

La Corte d’Appello, a seguito dell’impugnazione, ha confermato la sentenza e respinto i motivi dei due imputati.

Proposto ricorso per Cassazione, è stato lamentato, in uno dei motivi, il mancato danno arrecato alla fauna selvatica.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, non ha accolto i motivi proposti dagli imputati poichè, gli stessi, avrebbero dovuto seguire le norme previste dai regolamenti dei parchi naturali e regionali.

Proprio nel regolamento del Parco, è previsto un divieto di “emissioni sonore che possono arrecare disturbo all’habitat naturale nelle sue varie componenti, agli utenti e fruitori del parco e in generale alla tranquillità dei luoghi”.

Gli Ermellini hanno respinto i ricorsi degli imputati e li ha condannati al pagamento delle spese processuali.

reati ambientali musica

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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In caso di allontanamento dalla casa coniugale e di richiesta di addebito, spetta al richiedente provare il nesso di causalità tra detto comportamento e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza.

Il fatto

All’esito di un giudizio di separazione professionale, il Tribunale ha pronunciato l’addebito della stessa nei confronti del marito, per essersi allontanato dalla casa coniugale e la Corte d’Appello ha confermato la sentenza.

L’uomo ha, dunque, promosso ricorso per cassazione, ritenendo né che la moglie avesse provato il rapporto di causalità tra detto allontanamento e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, né che sussistessero comportamenti contrari ai doveri coniugali previsti dalla legge.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 23284, pubblicata il 18 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

Secondo la Corte, la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri posti dall’art. 143 c.c. a carico dei coniugi, ma è necessario accertare se la violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale.

Questa prova, in ogni caso, spetta alla parte che richiede l’addebito della separazione all’altro coniuge, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda provare l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata violazione.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Tale principio, affermatosi nella giurisprudenza di legittimità già prima dell’introduzione dell’art. 1130bis c.c. (L. n. 220/2012), viene in questa ordinanza della Corte confermato seppur nell’ambito di una pronuncia sulla legittimazione attiva del condomino e sull’inammissibilità del ricorso per Cassazione proposto dal Condominio.

Il fatto

L’ordinanza in oggetto narra che successivamente a una delibera condominale avente ad oggetto la manutenzione del lastrico solare del Condominio Alfa, il Consiglio di Condominio aveva esaminato diversi preventivi di spesa. Lo stesso Consiglio di Condominio aveva poi votato uno dei preventivi ricevuti ed aveva successivamente ripartito la relativa spesa tra i condomini, tra i quali anche Tizio, al quale era stato poi sollecitato il pagamento della propria quota.

Tizio, ritenendo illegittima la delibera assunta dal Consiglio di Condominio, ha proposto ricorso ai sensi dell’art. 1137 c.c. avanti al Tribunale di Torino affermando che il contenuto della delibera violava quanto stabilito dall’art. 1130bis, comma 2, c.c.. Il comma citato, infatti, attribuisce al Consiglio di Condominio funzioni consuntive e di controllo e, pertanto, eventuali delibere assunte dal Consiglio non possono ritenersi vincolanti in assenza di una successiva delibera da parte dell’assemblea condominale.

Il Tribunale di Torino e, successivamente, la Corte d’Appello hanno accolto la tesi di Tizio. Il Condominio ha quindi proposto ricorso per Cassazione sostenendo che l’assemblea condominale, nella delibera adottata successivamente a quella del Consiglio, aveva approvato i lavori, l’impresa appaltatrice ed il relativo preventivo di spesa e, quindi, approvato e ratificato quanto deliberato dal Consiglio.

La pronuncia

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dal Condominio in quanto inammissibile, poiché – in breve – la successiva delibera dell’assemblea condominiale non risultava agli atti.

Ciò nondimeno la Corte ha ribadito che “le decisioni di tale più ristretto consesso (il Consiglio condominiale n.d.r.) sono vincolanti per tutti i condomini – anche dissenzienti – solamente in quanto rimesse alla successiva approvazione, con le maggioranze prescritte, dell’assemblea, le cui funzioni (…) non sono delegabili a un gruppo di condomini”.

Nell’ambito di situazioni condominiali complesse, quindi, il Consiglio condominiale può certamente essere a supporto delle dinamiche decisionali dell’assemblea condominiale, ma il ruolo di tale ristretta rappresentanza condominale non può portare ad “esautorare l’assemblea dalle sue competenze inderogabili”.

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Avv. Alessandro Martini

Si laurea presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento nel novembre del 2011 con una tesi in diritto tributario sulla fiscalità dei nuovi strumenti finanziari partecipativi. Ad ottobre 2012 consegue un master di secondo livello presso l’Alta scuola di studi tributari A. Berliri di Bologna e si iscrive presso l’Ordine degli Avvocati di Trento nel 2017.

Con sentenza n. 23391/2019, depositata il 19 settembre 2019, la Corte di Cassazione, sezione II Civile, ha precisato che se sulla sentenza vi sono due date di deposito, spetta al giudice competente verificare, ai fini della decorrenza dell’impugnazione, qual’è la data corretta basandosi sulla scorta dei dati fattuali.

Il fatto

Il Tribunale, all’esito di un procedimento esecutivo immobiliare, ha emesso una sentenza con due date di avvenuto deposito.

La Corte d’Appello, a seguito dell’impugnazione, ha ritenuto che fossero decorsi i termini per impugnare il gravame, facendo riferimento alla prima delle due date di avvenuto deposito.

Proposto ricorso per Cassazione, è stato lamentato che, la Corte d’Appello, ha fatto riferimento solo alla prima delle due date e non alla data posteriore con scritto: “pubbl.”, non verificando in quale data effettiva fosse avvenuta la pubblicazione.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, ha accolto il motivo di ricorso e ha affermato che va individuata l’effettiva data di pubblicazione poiché è l’unica che rileva ai fini della decorrenza del termine per impugnare.

Spetta al giudice dell’Appello verificare l’effettiva data di pubblicazione «sulla scorta degli elementi fattuali versati in atti dalle parti ovvero anche mediante accertamento d’ufficio presso la cancelleria competente, ovvero utilizzando il canone dell’onere della prova».

La corte d’Appello non ha verificato la data di pubblicazione e per questo, il ricorso, è stato accolto e la sentenza cassata e rinviata ad altra sezione della corte d’Appello.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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In caso di pioggia, è del tutto normale che la banchina di una stazione ferroviaria sia bagnata e, pertanto, in caso di caduta a terra di un passeggero, l’azienda custode della stazione medesima non può essere ritenuta responsabile per non averne impedito l’accadimento o limitato il pericolo.

Il fatto

Nel 2011, una signora milanese che stava prendendo la metro in un giorno di pioggia, è scivolata a causa della presenza di una sostanza liquida presente sulla banchina della fermata della metropolitana.

Questa ha, dunque, citato in giudizio l’Azienda Trasporti Milanesi per ottenere il risarcimento dei danni patiti e il Tribunale meneghino ha, in primo grado, accolto la sua domanda.

La Corte d’Appello, tuttavia, ha riformato la prima decisione e ha escluso la responsabilità dell’azienda, in quanto questa avrebbe provato l’esistenza del caso fortuito.

La danneggiata, allora, ha promosso ricorso per cassazione, perché l’azienda convenuta non avrebbe dimostrato di aver adottato tutte le misure idonee ad impedire il pericolo.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 23189, pubblicata il 17 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, rigettando le ragioni della signora.

La presenza di umidità sulla banchina di una stazione pubblica, infatti, in una giornata di pioggia, è del tutto ordinaria.

Ciò ha reso la stessa banchina del tutto conforme alle condizioni normali che essa assume in caso di pioggia.

Tanto basta ad escludere che la cosa si presentasse pericolosa al di là di quanto connaturato all’uso pubblico nella condizione di pioggia. 

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Con ordinanza n. 22541/2019, depositata il 10 settembre 2019, la Corte di Cassazione, sezione III Civile, ha stabilito che bisogna comunque difendere chi è vittima di bullismo ed è soggetto a ripetuti atti persecuori e aggressivi dalla condotta altrui.

Il fatto

Un ragazzo durante una discussione con un coetaneo, ha sferrato un pugno procurandogli un danno al volto.

Nel procedimento a carico dell’aggressore, il Tribunale dei minorenni, ha deciso con sentenza di non luogo a procedere, così la vittima ha deciso di citare in giudizio l’aggressore e i genitori per richiedere la condanna in solido al risarcimento dei danni subiti.

Il giudice ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva dei genitori del danneggiante e ha accertato il concorso di colpa del danneggiato nella manifestazione dell’evento dannoso.

Proposto appello, il danneggiato ha lamentato l’esclusione della legittimazione passiva dei genitori dell’aggressore e l’accertamento del concorso di colpa nell’evento.

Con l’appello incidentale proposto dal ragazzo che ha sferrato il pugno e dai genitori, viene giustificato il comportamento dai continui atti di bullismo che il giovane ha dovuto subire in più situazioni.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, ha precisato che il giovane è un adolescente, vittima di moltelpici comportamenti prevaricatori e mortificanti,  e che ha reagito come gli è sembrato più consono in base alla situazione nella quale si è trovato per far cessare l’altrui condotta lesiva. 

In tal caso, viene affermato che la personalità dell’adolescente non si è ancora formata nella sua interezza e positività.

I Gudici hanno affermato che non era legittimo attendersi da parte del ricorrente, adolescente, una reazione razionale, controllata e non emotiva.

Infine hanno accolto il secondo motivo di ricorso e rinviato la controversia alla Corte d’Appello in diversa composizione.

Bullismo

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Con ordinanza n. 22385/2019, depositata il 06 settembre 2019, la Corte di Cassazione, sezione I Civile, ha stabilito che il contratto quadro, redatto in forma scritta, riguardante i servizi di investimento, è valido anche con la sola firma dell’investitore, con conseguente rilascio di copia al cliente, poichè viene dato per assodato l’intenzione di concludere il contratto da parte dell’intermediario

Il fatto

Un istituto di credito a seguito di una opposizione ex art. 98 Legge Fallimentare di un vantato credito verso una società fallita a titolo di saldo passivo di due conti correnti, ha impugnato il decreto con cui il Tribunale di Napoli aveva respinto la suddetta opposizione.
Il Tribunale ha precisato che, la Banca, non ha dimostrato la effettiva stipulazione in forma scritta dell’apertura di credito in conto corrente che è prevista a pena di nullità.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, ha accolto l’impugnazione della ricorrente sulla erroneità, assunta dal Tribunale, della mancanza della forma scritta facendo riferimento al recente orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Pertanto, gli Ermellini, hanno stabilito che il requisito della forma scritta del contratto quadro relativo ai servizi di investimento, disposto dall’art. 23 d.lgs. n. 58/1998, è rispettato nel momento in cui l’istituto di credito abbia redatto per iscritto il contratto e abbia messo a conoscenza il cliente a mezzo copia cartacea.

Per tale motivo, non è necessaria la firma dell’intermediario, poichè risulta palese la volontà di concludere il contratto, al contrario, risulta indispensabile la sottoscrizione dell’investitore.

Sent contratti bancari forma scritta

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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I requisiti essenziali di un muro di cinta sono costituiti dall’isolamento delle facce, dall’altezza non superiore a tre metri e dalla sua destinazione alla demarcazione della linea di confine ed alla separazione e chiusura della proprietà.

Il fatto

Il Tribunale di Bologna ha rigettato una domanda avente ad oggetto l’accertamento dell’illegittima costruzione sul confine, in violazione dell’art. 873 c.c., e l’illegittima limitazione di una servitù di passaggio a causa di un marciapiede che la ha ristretta di un metro.

In secondo grado, la Corte d’Appello ha escluso, ancora una volta,  la violazione delle distanze legali, ma ha accertato, invece, la limitazione della servitù, condannando il convenuto ad eliminare i manufatti e le opere esistenti sul confine dei fondi, restringenti il passaggio oggetto di servitù.

L’attore, non soddisfatto, ha promosso ricorso per la cassazione della sentenza.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 22445, pubblicata il 9 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso perché fondato.

La Corte d’Appello, infatti, ha errato nel ritenere che l’edificazione della convenuta sul confine fosse legittima, perché già c’era una costruzione rappresentata da un muro.

A norma dell’art. 878 c.c., il muro di cinta non va considerato nel computo delle distanze legali. 

Nel caso di specie, il muro in questione rappresenta un vero e proprio muro di cinta perché di altezza inferiore a 3 metri.

Di conseguenza, la costruzione in aderenza della convenuta è da considerarsi illegittima.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Il credito di risarcimento del danno da sinistro stradale è suscettibile di cessione ai sensi degli artt. 1260 c.c. e seguenti. Il cessionario può, in base a tale titolo, domandarne anche giudizialmente il pagamento al debitore ceduto, pur se assicuratore per la responsabilità civile, non sussistendo alcun divieto normativo in ordine alla cedibilità del credito risarcitorio.

Il fatto

Nel 2010 un automobilista ha subito un danno per l’esclusiva responsabilità del conducente di un altro veicolo.

Il danneggiato ha ceduto all’autocarrozzeria il diritto di credito vantato nei confronti della propria compagnia assicuratrice, a titolo di pagamento per le prestazioni svolte.

Detta Compagnia ha provveduto a pagare la somma corrispondente ai danni materiali subiti dalla vettura, ma non il corrispettivo per l’auto sostitutiva fornita al cliente.

La cessionaria del credito ha, dunque, agito in giudizio per ottenere l’integrale pagamento del credito.

L’Assicurazione ha, per contro, eccepito la nullità del contratto di cessione del credito.

Il Giudice di Pace di Trento, in primo grado, ed il Tribunale della medesima città, in appello, hanno rigettato la domanda rilevando l’illiceità del credito perché derivante da un’attività di finanziamento illegittima.

La carrozzeria ha, allora, promosso ricorso per cassazione, in quanto la stessa non avrebbe posto in essere alcuna attività di finanziamento, bensì una cessione finalizzata al pagamento di un debito.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 21765, pubblicata il 28 agosto 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso perché fondato.

I giudici di merito, nell’affermare che la cessione del credito avrebbe implicato un’attività finanziaria soggetta ad autorizzazione, hanno disatteso un precedente già espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, in un caso simile a quello in esame, la cessione del credito ha costituito il mero mezzo di pagamento da parte del cedente della prestazione professionale di carrozziere svolta dalla cessionaria del credito.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.