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Con ordinanza n. 22241/2019, depositata il 05 settembre 2019, la Corte di Cassazione, sezione VI Civile, ha affermato che gli avvocati devono prestare cautela ai termini di impugnazione, precisando che il termine breve può decorrere anche dalla comunicazione da parte della Cancelleria.

Il fatto

Se la parte decide di non notificare all’altra l’ordinanza, per non fare passare la stessa in giudicato in tempi brevi, il decorso del termine può ritenersi valido anche dalla comunicazione da parte della Cancelleria.

Tale comunicazione, però, dovrà contenere l’integrale testo dell’ordinanza, al fine che la controparte possa avere piena conoscenza di quanto statuito e per far valere il proprio diritto di difesa.

Per tale motivo la Corte ha affermato che il termine breve per l’appello può decorrere correttamente, dato che la Cancelleria ha messo a disposizione della parte il testo integrale dell’ordinanza.

Fondamentale è stata anche la decisione in ambito di compensazione delle spese di lite, poichè la Corte d’Appello non ha dato una giustificazione della mancata compensazione delle spese di lite data la soccombenza reciproca.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione ha affermato che, pur essendo necessaria la motivazione da parte del giudice della decisione di non compensare le spese di lite, la mancata giustificazione della compensazione in caso di soccombenza reciproca è comunque ammissibile con il riferimento ai principi costituzionali.

Sente

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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In tema di circolazione stradale, il reato di fuga ed omissione di soccorso necessita della prova dell’elemento soggettivo del dolo.

Il fatto

Un automobilista è stato dichiarato colpevole, sia in primo grado sia in appello, per il reato di fuga ed omissione di soccorso per essersi allontanato e non aver prestato soccorso ad una persona, che aveva appena investito con il proprio mezzo.

Egli ha, dunque, promosso ricorso per cassazione, in quanto non si sarebbe accorto di essere passato sopra la persona distesa a terra

La pronuncia

Con la sentenza n. 37145, pubblicata il 5 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso perché i giudici di merito non hanno sufficientemente provato il dolo dell’imputato, necessario per la configurazione dei reati allo stesso ascritti.

Il reato di mancata prestazione dell’assistenza occorrente in caso di incidente, infatti, implica una condotta ulteriore e diversa rispetto a quella del reato di fuga.

Non è sufficiente la consapevolezza che dall’incidente possano essere derivate conseguenze per le persone, ma è, invece, necessario che il pericolo appaia essersi concretizzato, almeno sotto il profilo del dolo eventuale, in effettive lesioni dell’integrità fisica. 

Nel caso di specie, il fatto che l’imputato avesse avuto contezza dell’urto con l’uomo sdraiato a terra non è stato provato oltre ogni ragionevole dubbio.

Di conseguenza, non è stata confermata la sentenza di condanna nei suoi confronti.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Con ordinanza n. 14382/2019, depositata il 27 maggio 2019, la Corte di Cassazione, sezione III Civile, ha stabilito che è comunque responsabile il genitore assente che non ha  rispettato gli obblighi primari del figlio anche se, l’altro genitore, non ha adempiuto ai doveri di mantenimento, educazione, istruzione ed assistenza.

Il fatto

Nel caso in oggetto, una figlia, quarantenne, ha citato in giudizio il padre per farsi riconoscere un risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, sostenendo la violazione degli obblighi genitoriali.

Il padre ha riconosciuto la figlia fin dalla nascita.

Nel corso della vita, la figlia, è stata mantenuta esclusivamente dalla madre.

La domanda è stata accolta sia in primo che in secondo grado, riconoscendo alla figlia i danni morali e materiali.

Il padre, a seguito della decisione della Corte d’Appello, ha promosso ricorso per Cassazione.

La pronuncia 

La Suprema Corte di Cassazione ha statuito che entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale, non solo il genitore che convive col figlio, lo mantiene, lo educa e lo istruisce.

Per tale motivo i Giudici hanno rigettato in toto il ricorso dell’uomo e hanno liquidato i danni morali e materiali.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Lo stipendio da considerare come base di calcolo dell’indennità di buonuscita non corrisponde all’ultima retribuzione effettivamente percepita, bensì è quello relativo alla qualifica di appartenenza.

Il fatto

Un dipendente dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, inquadrato nel livello F5 del relativo CCNL, dopo aver ricoperto temporaneamente una posizione dirigenziale vacante, ha presentato domanda di collocamento in quiescenza.

L’INPDAP gli ha riconosciuto un’indennità di buona uscita parametrata al suo livello di inquadramento.

L’ex lavoratore, allora, ha agito in giudizio sia nei confronti dell’Agenzia, sia nei confronti dell’INPS (successore dell’INPDAP), per ottenere il riconoscimento del diritto al ricalcolo di detta indennità sulla base del trattamento retributivo relativo all’incarico dirigenziale ricoperto.

I giudici di merito, tuttavia, hanno rigettato la sua domanda.

Egli ha, dunque, promosso ricorso per cassazione, ritenendo che l’indennità dovesse essere calcolata sulla base dell’ultima retribuzione effettivamente percepita, relativa alle mansioni dirigenziali di fatto svolte.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 22011, pubblicata il 3 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

Le Sezioni Unite di detta Corte, infatti, hanno già da tempo accolto l’orientamento secondo cui, nel regime d’indennità di buonuscita al pubblico dipendente che non abbia conseguito la qualifica di dirigente e che sia cessato dal servizio nell’esercizio di mansioni superiori in ragione dell’affidamento di un incarico dirigenziale temporaneo, sono da considerarsi inapplicabili i contratti collettivi per l’area dirigenziale.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Ai sensi dell’art. 2957 c.c., il termine triennale di prescrizione relativo al compenso per l’opera eseguita ed al rimborso delle spese anticipate dai professionisti decorre automaticamente dal compimento della prestazione.

Il fatto

Un avvocato ha svolto attività defensionale giudiziale in favore di un cliente nei confronti di una società fino al 2001, quando il Tribunale di Roma ha accolto la richiesta del primo e riconosciuto il suo diritto di credito nei confronti del secondo.

In seguito, lo stesso procuratore ha svolto, sempre in favore del medesimo cliente, l’attività di recupero forzoso del predetto credito, fino al 2005.

L’assistito, tuttavia, all’esito del rapporto, non ha pagato i compensi professionali del patrocinatore.

Quest’ultimo, allora, ha chiesto e ottenuto dal tribunale competente, l’emissione di un decreto ingiuntivo per il recupero del proprio credito.

A seguito dell’opposizione proposta verso detto provvedimento, però, sia in primo grado, sia in secondo, i giudici di merito hanno ritenuto prescritto nel 2001 il diritto azionato dal professionista.

Egli ha quindi promosso ricorso per cassazione, ritenendo che l’attività svolta dal prestatore d’opera in favore del committente si fosse invece esaurita nel 2005.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 21943, pubblicata il 2 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

La giurisprudenza di legittimità, in materia di prescrizione presuntiva relativa alle competenze dovute agli avvocati, ha individuato il momento di conclusione della prestazione nell’esaurimento dell’affare oggetto dell’incarico da parte del cliente, che coincide con la pubblicazione del provvedimento decisorio definitivo di un procedimento giudiziale.

Nel caso di specie, i giudici territoriali hanno escluso l’unitarietà dell’incarico con riferimento alle iniziative successive alla causa di merito, finalizzate al recupero del credito nei confronti del soccombente.

Di conseguenza, gli Ermellini non hanno potuto che confermare l’accoglimento dell’eccezione di prescrizione.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Ai fini della responsabilità per danni causati dal prodotto, si considera produttore anche chi si presenti come tale, apponendo il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto o sulla confezione.

Il fatto

Il conducente di un autoveicolo, modello Opel Tigra, ha urtato violentemente un guard-rail riportando, oltre ai danni materiali al veicolo medesimo, anche delle lesioni personali a causa del mancato funzionamento dell’airbag e della cintura di sicurezza, dovuti a difetti di fabbricazione.

Il danneggiato ha richiesto il risarcimento dei danni nei confronti di General Motors Italia S.r.l., successore di Opel Italia S.r.l..

Il Tribunale di Messina, in primo grado, tuttavia, ha rigettato tale richiesta.

La Corte d’Appello di Messina, in secondo grado, invece, ha riformato la prima sentenza, riconoscendo al conducente il diritto al risarcimento dei danni.

General Motors Italia S.r.l., allora, ha promosso ricorso per cassazione, ritenendo di non essere il produttore del bene oggetto di causa, bensì solamente il distributore, e pertanto di non avere alcuna responsabilità in merito al malfunzionamento del veicolo o di parti di esso.

La pronuncia

Con la sentenza n. 21841, pubblicata il 30 agosto 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso perché fondato.

La giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di affermare, infatti, che la responsabilità per danni causati da un prodotto è in capo al produttore dello stesso. Questi si individua nel soggetto che appone il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto o sulla confezione.

Risulta pacifico poi che, a livello internazionale, i marchi siano normalmente registrati dalle società capogruppo ed utilizzati da tutte le società che del gruppo fanno parte.

Nel caso di specie, allora, non essendo stata fornita la prova del fatto che Opel Italia S.r.l. abbia apposto sull’autovettura del danneggiato il proprio marchio, alcuna responsabilità può essere imputata in capo alla stessa.

Diversamente, si equiparerebbe il distributore al produttore, in violazione di quanto stabilito dalla legge.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

L’acquisto di un telefono cellulare fuori dai canali ufficiali di commercializzazione, per giunta da soggetto ignoto, è certamente sintomatico del dolo, elemento soggettivo necessario per la configurazione del reato di ricettazione.

Il fatto

Un ragazzo, all’esito di un controllo di polizia, è risultato possessore di un telefono cellulare, il cui smarrimento era già stato denunciato dal legittimo proprietario.

Sia in primo grado, sia in appello, i giudici di merito hanno condannato lo stesso ragazzo per il reato di concorso nella ricettazione.

Egli ha, dunque, promosso ricorso per cassazione, chiedendo la riqualificazione del fatto nella fattispecie di cui all’art. 647 c.p. (“appropriazione di cose smarrite, del tesoro o do cose avute per errore o caso fortuito“), depenalizzato dal D.Lgs. n. 7/2016.

La pronuncia

Con la sentenza n. 34481, pubblicata il 29 luglio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la condanna inflittagli.

Secondo i giudici di legittimità, la prova della sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo, richiesto per la configurazione del delitto di ricettazione, si è raggiunta sulla base dell’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è stata rivelatrice della volontà di occultamento, spiegabile con un acquisto in mala fede.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, infatti, ricorre il dolo di ricettazione nella forma eventuale quando l’agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza.

Sebbene non fosse richiesto all’imputato di provare la provenienza del possesso delle cose, dunque, egli avrebbe dovuto comunque fornire una attendibile spiegazione dell’origine del possesso delle cose medesime.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La nozione di violenza è riferibile a qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che si risolva comunque nella coartazione della libertà fisica o psichica del soggetto passivo che viene così indotto, contro la sua volontà, a fare, tollerare, o omettere qualcosa, indipendentemente dall’esercizio su di lui di un vero e proprio costringimento fisico.

Il fatto

Un ragazzo a bordo della propria automobile ha seguito la vettura condotta dalla propria ex fidanzata fuori da una discoteca, tentando di fermarla per discutere con lei.

Una volta che quest’ultima ha accostato, lui ha estratto con la forza la ragazza dall’abitacolo dell’auto, nonostante la chiara manifestazione di volontà contraria della stessa.

Dopo essere stato querelato dalla giovane, l’uomo è stato condannato, sia in primo grado, sia in appello, ad una pena detentiva, condizionalmente sospesa, per il reato di violenza privata.

L’imputato ha, allora, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Con la sentenza n. 35092, pubblicata il 31 luglio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Il delitto di violenza privata, secondo gli Ermellini, tutela la libertà psichica dell’individuo e reprime genericamente fatti di coercizione non espressamente considerati da altre norme di legge.

Il requisito della violenza, inoltre, si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a comprimere la libertà di autodeterminazione e di azione della persona offesa.

Può consistere anche in una violenza impropria, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui.

Per tali ragioni, hanno confermato la condanna impartita dai giudici di merito al giovane ragazzo.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

In tema di appalto, il principio per cui il giudice può qualificare la domanda proposta ricollegandola all’art. 1669 c.c., invece che considerarla quale richiesta di adempimento contrattuale ex art. 1667 c.c., è volto al rafforzamento della tutela del committente.

Il fatto

Un’impresa edile ha ottenuto l’emissione di un decreto ingiuntivo nei confronti di un proprio cliente per ottenere il pagamento di alcuni lavori di ristrutturazione.

Il committente delle opere ha proposto l’opposizione al medesimo decreto, in quanto avrebbe subito pregiudizi nel corso dell’esecuzione delle stesse che gli avrebbero arrecato dei danni.

Il Tribunale di Saluzzo, in primo grado, ha revocato il decreto ingiuntivo e condannato l’impresa al risarcimento di questi ultimi.

La Corte d’Appello di Torino ha, però, riformato la sentenza, non riconoscendo al committente alcun diritto al ristoro dei pregiudizi.

Quest’ultimo, allora, ha promosso ricorso per cassazione, in quanto i giudici di merito avrebbero errato a sussumere la fattispecie tra i vizi di cui all’art. 1667 c.c., anziché in quelli ex art. 1669 c.c..

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 20184, pubblicata il 25 luglio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso.

Nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, infatti, il giudice non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo piuttosto tener conto del contenuto sostanziale della pretesa.

In materia di appalto, la garanzia ex art. 1669 c.c. si configura come sottospecie di quella ex art. 1667 c.c., perché i gravi difetti dell’opera si traducono inevitabilmente in vizi della stessa.

La presenza di elementi costitutivi della prima, allora, implica necessariamente la sussistenza della seconda.

Pertanto, non sussiste incompatibilità tra gli artt. 1667 e 1669 c.c..

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Con ordinanza n. 19155/2019, depositata il 17 luglio 2019, la Corte di Cassazione, sezione I Civile, ha stabilito che la contestazione della riproduzione informatica deve essere chiara, circostanziata ed esplicita.

Il fatto

Nel caso di specie, una donna ha proposto ricorso per decreto ingiuntivo nei confronti del marito per farsi riconoscere, a titolo di rimborso spese straordinario, una somma pari ad Euro 2.000,00 per il pagamento delle rette del figlio all’asilo nido.

Dagli “sms” prodotti dalla donna è emerso che il padre del bambino fosse concorde con l’iscrizione presso il nido.

Il marito ha proposto ricorso per Cassazione.

La pronuncia 

I Supremi giudici hanno statuito che il Tribunale ha dato rilievo al contenuto dei messaggi telefonici dell’’impegno dell’uomo di accollarsi metà delle spese della retta dell’asilo nido.

Per tale motivo i Giudici hanno rigettato il ricorso dell’uomo.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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