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La Sesta sezione della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6562/2019, depositata il 06 marzo 2019, ha accolto il ricorso proposto da un consumatore contro un fornitore di servizi di gas, gli Ermellini hanno affermato che non basta la continua erogazione del servizio, bensì deve essere controllato il corretto funzionamento del contatore.

Il fatto

Il caso di specie, riguarda il ricorso, proposto da un consumatore, contro delle fatture prodotte in giudizio da un Ente erogatore.

La corte territoriale ha affermato che l’Ente erogatore, ha dimostrato le cessioni di gas riferite alle fatture prodotte in giudizio, e l’Ente ha proseguito nell’erogare la fornitura di gas durante il periodo relativo al rilevamento dei consumi o all’atto dell’emissione delle fatture;

In primo grado, la decisione è stata favorevole al soggetto che ha proposto l’azione;

La pronuncia

Per quanto riguarda i contratti di somministrazione, la Cassazione, ha affermato che è una semplice presunzione di veridicità il rilevamento dei consumi mediante contatore.

Nel caso di contrapposizione tra Ente erogatore e Consumatore, vige sul Fornitore l’onere di provare che il contatore sia in regola, senza perdite e sia funzionante.

Inoltre, successivamente alla contestazione del quantum del gas somministrato, la Società fornitrice avrebbe dovuto dimostrate la corretta funzionalità del contatore e, per tale motivo, inaccoglibilie sarebbe stata la pretesa creditoria, poichè è stato violato il principio della distribuzione dell’onere probatorio, ex art. 2697 c.c.

A sua volta, il Consumatore, deve dimostrare che i consumi, che sono documentati in bolletta, sono eccessivi rispetto allo standard di utilizzo e di controllo costante dell’impianto.

consumatore vs fornitore servizi di gas

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Con la sentenza n. 8459 del 29 gennaio 2019, la II sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che non configura alcuna ipotesi di reato l’utilizzo delle somme di denaro percepite a titolo di stipendio dall’ex-dipendente, dopo la cessazione del rapporto lavorativo, mentre può ritenersi integrato il solo obbligo di restituzione di natura civilistica.

Il fatto

Nonostante l’interruzione del rapporto di lavoro, un Ente pubblico continuava per errore a corrispondere le somme riconosciute a titolo di stipendio al proprio ex-dipendente, il quale ne faceva uso per scopi personali.

Il dipendente, a seguito della condanna emessa in secondo grado dalla Corte d’Appello di Trieste per il reato di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p., proponeva ricorso in Corte di Cassazione, sottolineando come la condotta a lui addebitata avesse rilievo solamente da un punto di vista civilistico.

La pronuncia

La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, ha evidenziato come ai fini della configurabilità del delitto di appropriazione indebita di somme di denaro, si renda necessario che il soggetto agente utilizzi tali somme per scopi diversi rispetto a quelli a cui erano destinate al momento della consegna.

Nel caso di specie, la disposizione del bonifico da parte dell’Ente erogatore ha determinato il trasferimento definitivo del denaro nel patrimonio del soggetto agente, senza alcuna specifica destinazione di scopo, sicché nessuna illiceità può essere ravvisata nel successivo utilizzo delle somme (diverso è ad esempio il caso di utilizzo delle somme versate a titolo di acconto sul prezzo pattuito nel contratto preliminare, cfr. Corte di Cassazione Sez. II penale, Sent. 48136 del 21 novembre 2013).

Nell’ipotesi in esame, tra le parti matura esclusivamente l’obbligo di restituire quanto indebitamente percepito, e l’inadempimento di tale obbligo ha carattere di natura civilistica.

 Appropriazione Indebita

Dott. Enrico Pomarici

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Trento nel 2016, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa di diritto penale.

Le prescrizioni dei segnali stradali verticali prevalgono rispetto a quelle dei segnali orizzontali, ai sensi dell’art. 38, comma 2, del Codice della Strada.

All’interno delle aree di sosta, le strisce orizzontali hanno solo funzione integrativa e sono obbligatorie solo quando gli stalli sono disposti “a spina di pesce” o “a pettine”.

Il fatto

Un automobilista ha parcheggiato il proprio veicolo lungo un tratto di strada con sosta a pagamento, privo tuttavia di strisce di delimitazione degli stalli.

Non ravvisando le strisce sull’asfalto, non ha pagato il corrispettivo per il posteggio.

La Polizia Locale di Messina ha emesso comunque una sanzione amministrativa nei suoi confronti, per sosta in parcheggio a pagamento senza esposizione del relativo tagliando.

Il proprietario dell’autoveicolo si è opposto alla stessa, promuovendo il ricorso davanti il Giudice di Pace locale, senza ottenere però l’accoglimento delle proprie ragioni.

Anche il Tribunale di Messina, in grado di appello, ha confermato il rigetto dell’opposizione.

Il soccombente ha quindi proposto ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 6398, pubblicata il 5 marzo 2019, ha rigettato il ricorso perché infondato.

Il Tribunale, infatti, ha correttamente accertato la presenza della segnaletica verticale recante l’indicazione degli orari di sosta e delle tariffe. Questo è ritenuto sufficiente a segnalare la necessità di pagare il parcheggio per poter sostare.

A nulla è rilevato, invece, l’assenza di delimitazione degli stalli segnalati da strisce, essendo gli stessi paralleli all’asse stradale e per i quali l’art. 149, reg. att. C.d.S., non ha previsto l’obbligo di delimitazione.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con l’ordinanza n. 5794, pubblicata il 28 febbraio 2019, la Corte di Cassazione ha delineato la nullità del contratto di locazione stipulato verbalmente e ha riconosciuto il diritto dell’inquilino ad ottenere la restituzione delle somme indebitamente versate al proprietario di casa.

Il fatto

Il proprietario di un appartamento lo ha affittato per il periodo dal marzo 2011 all’agosto 2012 al canone di 900 euro mensili, senza tuttavia registrare alcun contratto.

Nel marzo 2012, tuttavia, su richiesta dell’inquilino, il locatore ha registrato un contratto di locazione nel quale è previsto un canone inferiore a quello effettivamente corrisposto, pari a 400 euro mensili.

Il conduttore, allora, lo ha convenuto in giudizio chiedendo la restituzione delle somme indebitamente pagate, corrispondenti ad euro 500 mensili per tutta la durata del contratto.

Sia il Tribunale di Lucca, in primo grado, sia la Corte d’Appello di Firenze, in secondo, hanno però rigettato la domanda. Secondo i giudici del merito, il contratto di locazione intercorso tra le parti non è ascrivibile alla categoria “contratti non registrati nel termine stabilito dalla legge”, essendovi prova che il contratto del marzo 2012 è stato registrato subito dopo la stipulazione.

L’inquilino ha promosso ricorso per cassazione in quanto il contratto stipulato prima del marzo 2012 sarebbe nullo per mancanza di forma scritta.

La pronuncia

La Cassazione ha accolto il ricorso ritenendolo fondato.

Come noto, la sentenza delle Sezioni Unite n. 18214/2015 ha affermato che i contratti di locazione ad uso abitativo stipulati senza la forma scritta sono affetti da nullità assoluta, rilevabile da entrambe le parti e d’ufficio, eccezion fatta per l’ipotesi in cui la forma verbale sia abusivamente imposta dal locatore, nel qual caso la nullità (cd. di protezione) è rilevabile dal solo conduttore.

Nel caso, dunque, di contratto a forma verbale liberamente concordata tra locatore e conduttore trovano applicazione i principi generali in tema di nullità.

Di conseguenza, se da un lato il locatore può agire in giudizio per il rilascio dell’immobile occupato senza alcun titolo, dall’altro il conduttore può ottenere la parziale restituzione delle somme versate a titolo di canone in misura eccedente a quanto concordato.

Nella fattispecie concreta, i giudici di merito hanno erroneamente escluso la ripetizione di quanto pagato in più dal conduttore, facendo riferimento a quanto concordato tra le parti anziché al canone concordato dalle associazioni di categoria.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 26843/2018, depositata in data 23 ottobre 2018, viene sancito che in caso di mancata notifica del verbale di accertamento, la cartella esattoriale è valida.

Il fatto

L’automobilista ha proposto ricorso dinanzi al Giudice di Pace, per far riconoscere la nullità della notificazione dell’atto presupposto.

Proposto l’appello, il Giudice monocratico l’ha rigettato, poiché è stata fondata l’opposizione a cartella, sulla sola deduzione che è mancata la regolare notifica del verbale, senza formulare alcuna ulteriore doglianza.

Il ricorrente propone ricorso per Cassazione.

La pronuncia

I Giudici della Suprema Corte di Cassazione, si sono espressi affermando che: nell’ambito delle opposizioni a sanzioni amministrative, è inammissibile l’opposizione a cartelle di pagamento, ove sia diretto a recuperare il momento di garanzia, con il quale, il soggetto, sostiene di non potere avvalersene per la formazione del titolo per omessa notificazione dell’atto presupposto.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La domanda di risarcimento dei danni conseguenti ad affermazioni offensive contenute in scritti difensivi e rivolte nei confronti del giudice che sta trattando la causa deve essere proposta in separato giudizio, ai sensi dell’art. 89 c.p.c..

Il fatto

Nel corso di una causa trattata davanti all’Ufficio del Giudice di Pace di Apricena, la società convenuta ha inserito in un atto giudiziario una serie di considerazioni lesive del prestigio professionale e dell’onore del giudicante, oltre ad aver presentato otto istanze di ricusazione nei suoi confronti, tutte rigettate.

Il Giudice di Pace, allora, ha citato in giudizio questa società per ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti, essendo integrati i presupposti per i reati di ingiuria e diffamazione.

Sia il Tribunale di Lucera, in primo grado, sia la Corte d’Appello di Bari, in secondo, tuttavia, hanno rigettato la domanda per due motivi.

In primo luogo, perché la richiesta avrebbe dovuto essere formulata nei confronti del legale della società, essendo egli l’autore degli atti giudiziari.

In secondo luogo, perché, ai sensi dell’art. 89 c.p.c., la domanda risarcitoria avente ad oggetto frasi offensive contenute negli scritti difensivi presentati davanti all’autorità giudiziaria avrebbe dovuto essere sanzionata nell’ambito dello stesso giudizio.

Il soccombente ha quindi promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Con la sentenza n. 4733, pubblicata il 19 febbraio 2019, la Suprema Corte ha accolto i motivi del Giudice di Pace, perché fondati.

Da un lato, in quanto, essendo le offese rivolte nei confronti del giudice e non nei confronti dell’altra parte processuale o dell’altro difensore, non è applicabile l’art. 89 c.p.c..

Dall’altro lato, in quanto, in conformità alla consolidata giurisprudenza di legittimità, “il destinatario della domanda (…) è sempre e solo la parte, la quale – se condannata – potrà rivalersi nei confronti del difensore, cui siano addebitabili le espressioni offensive, ove ne ricorrano le condizioni“.

Il giudice ha dunque correttamente proposto la domanda risarcitoria e ha ricevuto il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la sentenza n. 738, pubblicata il 23 ottobre 2018, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Massa ha definito il concetto di lesione del decoro architettonico conseguente alla realizzazione di opere sulle parti in proprietà esclusiva di un condominio.

Il fatto

Il proprietario dell’appartamento posto all’ultimo piano di uno stabile condominiale ha eseguito alcune opere presso la sua abitazione.

Tra queste, ha chiuso il lastrico solare di proprietà esclusiva, ha modificato tutti i parapetto dell’attico, ha aperto una seconda porta d’accesso all’appartamento, ha chiuso alcune finestre del piano casa condominiale e ha demolito la canna fumaria comune.

Gli altri condomini, dunque, lo hanno citato in giudizio per far accertare l’illiceità delle opere realizzate dallo stesso e sentirlo condannare a ripristinare lo stato dei luoghi, avendo le stesse modificato il prestigio del palazzo.

La pronuncia

Il Tribunale toscano ha, preliminarmente, ricostruito la nozione di decoro architettonico come delineata dalla Suprema Corte di Cassazione.

Esso riguarda l’estetica del fabbricato fornita dalle linee e dalle strutture ornamentali che costituiscono la nota dominante dell’edificio, ma non l’impatto dell’opera con l’ambiente circostante.

L’alterazione dello stesso, allora, deve valutarsi non solo con riferimento all’armonia di dette linee e strutture, ma anche alla modifica dell’originario aspetto di singoli elementi che abbiano una sostanziale autonomia, tale da causare significative ripercussioni pregiudizievoli nella valutazione economica delle singole unità immobiliari.

Il singolo condomino, che esegue opere sulle parti di proprietà esclusiva, altera dunque il decoro architettonico dello stabile se, tenendo conto delle caratteristiche dell’edificio al momento dell’opera, modifica l’avvenenza dell’intero fabbricato, o di parti di esso, e reca un pregiudizio tale da comportare un deprezzamento dello stesso e delle unità immobiliari in esso comprese.

Nel caso in esame, all’esito dell’istruttoria svolta, il giudice ha ritenuto che le innovazioni realizzate dal condomino dell’ultimo piano non fossero tali da pregiudicare il decoro dell’intero edificio e, quindi, ha respinto tutte le domande proposte dagli attori.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con l’ordinanza n. 4306, pubblicata il 14 febbraio 2019, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione ha stabilito che, nell’ipotesi di risarcimento dei danni derivanti da circolazione stradale, devono sempre essere riconosciute le competenze professionali per l’attività svolta dal legale in via stragiudiziale.

Il fatto

A seguito di un sinistro stradale, una Compagnia di Assicurazioni ha offerto ai danneggiati una somma a titolo di risarcimento dei danni.

Questa è stata accettata “a titolo di acconto”, avendo i soggetti lesi richiesto un importo maggiore, oltre alla liquidazione delle spese legali per l’attività svolta dal loro difensore.

Di conseguenza, gli stessi hanno adito il Tribunale di Roma per ottenere il soddisfacimento integrale delle proprie pretese.

I giudici capitolini hanno accolto parzialmente le richieste degli attori, condannando solamente l’Assicurazione a pagare un’ulteriore somma a titolo di ristoro per i danni subiti dagli attori.

Sull’appello formulato avverso detta sentenza, la Corte d’Appello di Roma ha respinto, ancora una volta, la domanda di pagamento delle spese legali stragiudiziali. Secondo i giudici di secondo grado, ai sensi dell’art. 9 del Regolamento attuativo dell’indennizzo diretto per danni da circolazione stradale, non sarebbero dovuti compensi per la consulenza professionale perché l’importo offerto dalla Compagnia è stato comunque accettato.

Sul punto, è stato quindi promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte ha accolto le richieste dei danneggiati, condividendone i motivi di impugnazione.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, infatti, “in tema di risarcimento diretto dei danni derivanti dalla circolazione stradale, (…) sono comunque dovute le spese di assistenza legale sostenute dalla vittima perché il sinistro presentava particolari problemi giuridici, ovvero quando essa non abbia ricevuto la dovuta assistenza tecnica e informativa dal proprio assicuratore, dovendosi altrimenti ritenere nulla detta disposizione per contrasto con l’art. 24 Cost., e perciò da disapplicare, ove volta ad impedire del tutto la risarcibilità del danno consistito nell’erogazione di spese legali effettivamente necessarie“.

Le spese legali richieste, pertanto, sono certamente dovute e possono essere liquidate anche in conformità alla consolidata prassi giurisprudenziale secondo la quale le spese legali relative alla fase stragiudiziale devono essere liquidate come spese giudiziali, perché attività puramente strumentale a quest’ultima.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la sentenza n. 3133/2019, pubblicata l’1 febbraio 2019, la Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione ha confermato il licenziamento disciplinare nei confronti di una dipendente per aver effettuato molteplici accessi a Facebook durante l’orario di lavoro.

Il fatto

Il titolare di uno studio medico ha scoperto che la segretaria, in orario di lavorativo, ha effettuato circa 6 mila accessi al noto social network nel corso di 18 mesi di lavoro e, quindi, ha provveduto a licenziarla.

La lavoratrice ha provveduto ad impugnare il licenziamento disciplinare.

Il Tribunale di Brescia, prima, e la Corte d’Appello della medesima città, poi, hanno respinto i ricorsi, in quanto l’impiegata non ha mai negato di aver effettuato gli accessi contestati e dall’analisi della cronologia del computer alla stessa in uso sono emerse prove univoche del fatto.

Quest’ultima, allora, ha proposto ricorso per cassazione a fronte dell’impossibilità di fondare la decisione dei giudici sul report di cronologia: da un lato, perché non sarebbe possibile dimostrare la genuinità e la riferibilità alla lavoratrice degli accessi e, dall’altro lato, in quanto sarebbero state violate le regole sulla tutela della privacy.

La pronuncia

Gli Ermellini hanno rigettato la censura perché inammissibile.

Quanto alle regole sulla privacy, la questione non è mai stata sollevata nel corso dei giudizi di primo e secondo grado. Essendo nuova, non è stato ammesso il suo ingresso in sede di legittimità.

Quanto all’idoneità probatoria della cronologia, i giudici di merito hanno correttamente valorizzato sia la mancata contestazione degli accessi da parte della dipendente, sia la necessità di inserire le proprie credenziali d’accesso (username e password) per entrare nella pagina personale Facebook.

Non è messa in dubbio, quindi, la riferibilità degli accessi alla lavoratrice.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la sentenza n. 6281/2019, pubblicata l’8 febbraio 2019, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione ha precisato che il reato di atti osceni in luogo pubblico, depenalizzato dal D. Lgs. n. 8/2016, sussiste ancora per l’ipotesi di atti commessi all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori, qualora derivi il pericolo che essi vi assistano.

Il fatto

Nel luglio del 2018, un uomo è stato visto masturbarsi in un parco da alcuni passanti, i quali hanno informato un maresciallo di Polizia Locale, che è intervenuto sul posto.

L’uomo è stato tempestivamente identificato ed è stato accertato che a poca distanza molti bambini stavano giocando nel parco.

Dapprima il Tribunale di Tivoli e, in seguito, il Tribunale della libertà di Roma hanno contestato nei suoi confronti il reato di atti osceni, di cui all’art. 527 co. 2 c.p., e hanno disposto la misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

L’imputato ha proposto ricorso per cassazione, ritenendo insussistenti i gravi indizi di colpevolezza.

La pronuncia

Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso perché infondato.

I giudici di merito, infatti, hanno correttamente valutato la gravità indiziaria.

Hanno ritenuto, in primo luogo, ininfluente la durata degli atti e, secondariamente, hanno tenuto conto della contestazione personale visiva effettuata dall’ufficiale di polizia giudiziaria. Infine, hanno giudicato irrilevante la circostanza secondo la quale l’uomo non fosse completamente nudo.

Inoltre, per pacifica giurisprudenza, il parco pubblico è valutato un luogo abitualmente frequentato da minori, cioè “un luogo nel quale, sulla base di una attendibile valutazione statistica, la presenza di più soggetti minori di età ha carattere elettivo e sistematico” e, nel caso di specie, il pericolo concreto è integrato dal fatto che effettivamente molti minori stavano giocando nel parco, i quali avrebbero potuto notare gli atti compiuti dall’uomo.

Studio Legale Damoli

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