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Con l’ordinanza n. 8438/2018, pubblicata il 5 aprile 2018, la Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale la verifica del conflitto di interessi tra il figlio minore, incapace di stare in giudizio personalmente, ed il genitore deve essere operato in concreto e non in astratto.

Il fatto

Una Banca ha citato in giudizio un intero nucleo familiare, per ottenere la revocazione dell’atto di donazione con cui i genitori hanno donato alle figlie un terreno.

Dapprima il Tribunale di Siracusa e, in secondo grado, la Corte d’Appello di Catania hanno dichiarato l’inefficacia, ai sensi dell’art. 2901 c.c., dell’atto di disposizione impugnato nei confronti della stessa Banca.

Una delle figlie ha proposto ricorso per cassazione, in quanto i giudici di merito non avrebbero considerato la sussistenza di un conflitto di interessi tra la ricorrente medesima ed i propri genitori.

La pronuncia

Gli Ermellini hanno dichiarato il ricorso infondato.

Partendo dal presupposto che il conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale deve essere verificato in concreto e non in astratto, hanno evidenziato che il conflitto tra padre e figlio minore sussisterebbe soltanto qualora i due soggetti si trovassero in posizione di contrasto: cioè quando l’interesse proprio del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, mal si concilierebbe con quello del rappresentato.

Non si configurerebbe, invece, nell’ipotesi in cui pur avendo entrambi i soggetti un interesse proprio e distinto al compimento dell’atto, questo corrispondesse al vantaggio comune di entrambi.

Nel caso in esame, l’interesse dei genitori e quello della figlia è risultato coincidente nel fine di sottrarre l’atto di donazione alla revocatoria e, pertanto, non è stato rilevato alcun conflitto.

Studio Legale Damoli

Cass_8438_2018

Con la sentenza n. 2905/2019, pubblicata il 22 gennaio 2019, la Quinta Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione ha confermato la condanna nei confronti di un uomo per essere entrato senza autorizzazione nell’account Facebook della moglie.

Il fatto

Un signore ha fatto accesso al profilo del noto social network della consorte, utilizzando il nome utente e la password comunicatele dalla stessa molto tempo prima.

Così facendo, ha scoperto una chat intrattenuta dalla coniuge con un altro uomo, l’ha fotografata e ha cambiato la password d’accesso.

In seguito, ha utilizzato le schermate riproducenti quelle conversazioni nel giudizio di separazione personale.

Dapprima il Tribunale di Palermo e, in secondo grado, la Corte d’Appello della medesima città, hanno condannato il marito per il reato di cui all’art. 615 ter c.p., “accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico“, per aver violato la privacy della moglie senza la sua autorizzazione.

L’imputato ha proposto, quindi, ricorso per cassazione, lamentando la non applicabilità al caso di specie della norma predetta, essendo la password stata comunicata al compagno dalla stessa consorte.

La pronuncia

I giudici del Palazzaccio hanno dichiarato inammissibile il ricorso.

La circostanza che la coniuge avesse fornito le credenziali del proprio account social al marito, realizzando così un’implicita autorizzazione verso lo stesso, non ha escluso il carattere abusivo degli accessi.

Mediante questi ultimi, infatti, si è ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l’estromissione dall’account Facebook della titolare del profilo e l’impossibilità di accedervi“.

Studio Legale Damoli

Cass_2905_2019

Con la sentenza n. 4920/2019, pubblicata il 31 gennaio 2019, la Sesta Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione ha ribadito il principio generale secondo cui la commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illiceità deve ritenersi consentita, nell’ambito del generale potere delle persone di agire per il soddisfacimento dei loro interessi.

Il fatto

Ad un commerciante di cannabis light sono state sequestrate delle infiorescenze, perché risultate contenere THC compreso tra lo 0,52% e lo 0,65%.

Il Tribunale di Macerata ha rigettato l’istanza di riesame proposta dallo stesso rivenditore, in quanto ha ritenuto che la L. n. 242/2016 (intitolata “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”) non riguardi scopi ricreativi, bensì unicamente la coltivazione.

Il proprietario dei beni sequestrati ha, quindi, presentato ricorso per cassazione, ritenendo che il mancato inserimento del commercio di infiorescenze nell’elenco delle attività lecite non escluda che esso sia lecito, qualora vengano rispettati i limiti di THC fissati dalla legge. Sarebbe, infatti, incongruo ritenere lecita la produzione delle infiorescenze e non la commercializzazione, senza alcuna modifica, delle stesse.

La pronuncia

La Suprema Corte ha accolto le ragioni del ricorso, annullando l’ordinanza di sequestro preventivo.

I giudici del Palazzaccio hanno ritenuto (conformemente alla giurisprudenza di merito ed alla dottrina) che la liceità della vendita al dettaglio delle infiorescenze sarebbe un corollario logico-giuridico dei contenuti della L. n. 242/2016.

In sostanza, dalla liceità della coltivazione della cannabis è derivata la liceità dei suoi prodotti, contenenti il principio attivo THC inferiore allo 0,6%. La fissazione di detto limite ha rappresentato un ragionevole equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e le conseguenze inevitabili della commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni.

Il D.P.R. n. 309/1990 (il testo unico in materia di sostanze stupefacenti), che disciplina anche la repressione delle attività illecite, perciò, non può mai riguardare la commercializzazione di prodotti dei quali è riconosciuta la liceità.

Cass_4920_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con l’ordinanza n. 2531/2019, pubblicata il 30 gennaio 2019, la Terza Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione ha stabilito che il conducente di un autoveicolo è responsabile dell’utilizzo delle cinture di sicurezza da parte del passeggero.

Il fatto

A seguito di un incidente stradale, il danneggiato terzo trasportato ha citato in giudizio il proprietario della vettura danneggiante, la compagnia assicurativa di quest’ultimo ed il conducente del veicolo danneggiato, per accertare la responsabilità del primo nella causazione del sinistro ed ottenere il risarcimento dei danni subiti, patrimoniali e non.

Si è costituita l’assicurazione, eccependo che le lesioni subite dall’attore si sono verificate per l’esclusiva e determinante responsabilità dello stesso, in quanto non ha indossato le cinture di sicurezza.

Il Tribunale di Cosenza ha condannato i convenuti in solido al risarcimento del danno biologico e del danno patrimoniale futuro subito dall’attore.

Sull’impugnazione proposta dalla compagnia assicurativa, la Corte d’Appello di Catanzaro ha rivalutato le prove e ha ritenuto incompatibili le lesioni riportate dal danneggiato e l’uso delle cinture di sicurezza. Di conseguenza, ha riconosciuto il concorso tra il comportamento del danneggiante e quello del danneggiato, riducendo proporzionalmente il risarcimento, in ragione dell’entità del contributo causale di quest’ultimo alla produzione del danno, ed escludendo in toto il danno patrimoniale, perché riconducibile al comportamento dello stesso.

Il danneggiato ha quindi proposto ricorso per cassazione perché i giudici di secondo grado avrebbero errato nell’escludere il nesso causale tra la condotta del conducente e la produzione del danno e nel non rilevare che, pur in presenza di una riduzione del risarcimento dovuto al concorso di colpa del danneggiato, è rimasto fermo il nesso causale tra la condotta del conducente ed il danno.

La pronuncia

La Suprema Corte ha accolto le ragioni del ricorso. Il comportamento colpevole del danneggiato, infatti, non può in alcun caso interrompere il nesso causale tra la condotta del conducente del veicolo e la produzione del danno.

Ha ribadito, poi, il consolidato principio (già espresso in Cass. 18177/2007) secondo il quale il conducente è responsabile dell’utilizzo delle cinture di sicurezza da parte del passeggero. La causazione del danno da mancato utilizzo, quindi, è imputabile sia all’uno che all’altro. Ciò in quanto il conducente ha l’obbligo di mettere in circolazione il veicolo in condizioni di sicurezza. Deve controllare, cioè, che la marcia avvenga in conformità delle norme di prudenza e sicurezza anche nell’ipotesi in cui il trasportato, accettando i rischi della circolazione, cooperi colposamente nella condotta causativa dell’evento dannoso.

Nell’ipotesi di danno al trasportato, allora, sebbene la condotta di quest’ultimo non sia idonea ad escludere di per sé la responsabilità del conducente, può certamente costituire un contributo colposo alla verificazione del danno.

Studio Legale Damoli

Cass_2531_2019

Con l’ordinanza n. 26691/2018, depositata il 22 ottobre 2018, la Sesta Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione ha stabilito che nel caso di furto all’interno dell’abitazione di un condomino, commesso con accesso dalle impalcature esterne installate in occasione della ristrutturazione dell’edificio, è configurabile la responsabilità del condominio per danno cagionato da cosa in custodia.

Il fatto

Il proprietario dell’appartamento ha citato in giudizio il condominio e l’impresa esecutrice delle opere di rifacimento dell’immobile, per ottenere una condanna nei loro confronti al risarcimento dei danni conseguenti al furto di alcuni oggetti preziosi e denaro sottratti ad opera di ignoti, i quali si sono introdotti in casa attraverso i ponteggi lasciati incustoditi dallo stesso appaltatore.

Il Tribunale di Napoli ha accolto la domanda dell’attore, condannando in solido i convenuti al pagamento della somma di circa € 28.000.

Il condominio ha appellato la sentenza del giudice di prime cure eccependo, in via preliminare, la propria carenza di legittimazione passiva sostanziale essendo l’impresa appaltatrice l’unica responsabile; nel merito, l’inapplicabilità al caso di specie dell’art. 2051 c.c. essendo il condominio custode solo delle cose di proprietà comune, non invece dei ponteggi; e, in via subordinata, l’insussistenza della propria responsabilità per aver sollecitato l’impresa ad intervenire.

La Corte d’Appello partenopea ha escluso la culpa in vigilando del condominio per aver sollecitato più volte l’appaltatrice a rimuovere il ponteggio, a fronte della sospensione dei lavori.

La pronuncia

La Suprema Corte si è pronunciata favorevolmente sulla configurabilità della responsabilità solidale del condominio con quella dell’impresa esecutrice dei lavori di ristrutturazione, sia per culpa in eligendo, sia per culpa in vigilando.

In particolare, nell’ipotesi di furto in appartamento condominiale, commesso con accesso dalle impalcature installate in occasione della ristrutturazione dell’edificio, sono individuabili due responsabilità.

Da un lato, quella dell’imprenditore ai sensi dell’art. 2043 c.c., per omessa ordinaria vigilanza nella adozione delle cautele atte ad impedire l’uso anomalo dei ponteggi.

Dall’altro, quella del condominio ai sensi dell’art. 2051 c.c., per l’omessa vigilanza e custodia della medesima impalcatura, cui è obbligato quale soggetto che ha disposto il mantenimento della struttura.

Studio Legale Damoli

Cass_26691_2018

Con la recente ordinanza n. 966 del 16 gennaio 2019, la Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione ha ribadito il consolidato orientamento secondo il quale, nell’ambito dell’usucapione di beni ereditari, non sono necessari atti di interversione del possesso.

Il fatto

Alla morte del padre, un figlio ha citato in giudizio gli altri due fratelli per ottenere lo scioglimento della comunione ereditaria, con rendiconto.

Uno dei convenuti, costituitosi in giudizio, ha chiesto l’accertamento in via riconvenzionale dell’acquisto per usucapione della proprietà dell’immobile nel quale ha vissuto fino ad allora.

La Corte d’Appello di Venezia, accogliendo l’impugnazione avverso la sentenza del Tribunale di Vicenza, ha respinto detta domanda di acquisto della proprietà a titolo originario.

Il soccombente, pertanto, ha promosso il giudizio di legittimità ritenendo che la domanda di usucapione dei beni ereditari non richiedesse la sussistenza di alcun atto di interversione del possesso.

La pronuncia

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso in quanto infondato.

I giudici del Palazzaccio, pur accogliendo in punto di diritto la posizione del ricorrente, hanno ritenuto che “la Corte d’Appello non ha fondato la decisione sul rilievo che non vi fosse prova di atti di interversione del possesso – che non sono richiesti ai fini dell’usucapione di beni ereditari -, bensì sul rilievo che non fosse provato il possesso ad excludendum, vale a dire una situazione nella quale il rapporto materiale del coerede con i beni ereditari sia tale da escludere gli altri coeredi dalla possibilità di analogo rapporto“.

È stato quindi ribadito il principio, già affermato tra le altre da Cass. n. 10734/2018, secondo il quale il coerede che dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso.

L’art. 714 c.c., infatti, non richiede alcun atto di interversione.

Al fine di usucapire un bene facente parte di un asse ereditario, allora, occorre ed è sufficiente estendere il possesso in termini di esclusività o ad excludendum: il coerede deve godere del bene con modi incompatibili con la possibilità di godimento altrui.

Studio Legale Damoli

Cassazione_966_2019

Con la recente sentenza n. 1028 del 16 gennaio 2019, la Sesta Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il principio (già espresso, da ultimo, in Cass. n. 11028/2016) secondo il quale per privare di valore probatorio un foglio firmato totalmente o parzialmente in bianco, è necessaria la querela di falso e non il semplice disconoscimento di scrittura privata.

Il fatto

Nell’ambito di una compravendita di un’autovettura, il rivenditore ha consegnato l’automobile all’acquirente, provvedendo anche ad effettuare il passaggio di proprietà, mentre quest’ultimo ha pagato il prezzo del bene ed ha consegnato una fotocopia della propria patente, sottoscrivendola e indicando il proprio numero di telefono.

In un secondo momento, il commerciante ha riportato su questo foglio, di suo pugno, alcune righe di testo per obbligare il compratore a pagare un prezzo superiore rispetto a quello pattuito. Poi lo ha citato in giudizio per ottenere il pagamento, per l’intero, dell’importo maggiorato.

Il cliente, costituitosi in giudizio, ha eccepito l’avvenuto pagamento della minor somma realmente pattuita e ha disconosciuto, ai sensi dell’art. 214 c.p.c., il contenuto della scrittura privata intercorsa tra le parti.

Il Tribunale e, poi, la Corte d’Appello di L’Aquila hanno accolto la domanda del concessionario, condannando l’acquirente alla corresponsione, per l’intero, dell’importo più elevato.

La pronuncia

Anche i giudici del Palazzaccio hanno dato ragione al venditore, in quanto il compratore ha errato nella scelta dello strumento processuale: anziché proporre il disconoscimento della scrittura privata, avrebbe dovuto proporre la querela di falso.

Sul documento in questione, infatti, vi è rappresentata la copia fotostatica della patente del cliente, la sua sottoscrizione ed il suo recapito telefonico, oltre al testo riportato dal venditore. L’acquirente non ha contestato l’autenticità della firma collocata in calce alla scrittura, riconoscendo come proprio anche il documento d’identità raffigurato, ma ha unicamente disconosciuto il contenuto dell’atto. In sostanza, ha negato formalmente che il testo del documento fosse scritto di suo pugno, ma ha confermato che la sottoscrizione fosse la sua.

Quest’ultima, tuttavia, ai sensi dell’art. 2702 c.c., “vale ad ingenerare una presunzione iuris tantum di consenso del sottoscrittore al contenuto dell’atto e di assunzione di paternità dello scritto indipendentemente dal fatto che la dichiarazione non sia stata vergata o redatta dal sottoscrittore“.

Pertanto, per contestare la verità del testo e superare la predetta presunzione, cioè per denunciare il riempimento abusivo di un foglio absque pactis, sarebbe stata necessaria la querela di falso, disciplinata dagli artt. 221 e seguenti c.p.c..

Studio Legale Damoli

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Con ordinanza n. 30472/2018, la Cassazione ha statuito che il danneggiato che agisce per richiedere il risarcimento del danno da occupazione di un bene condominiale, come il cortile, deve provare il pregiudizio economico subito a seguito dell’occupazione.

Il danno nascerebbe dalla perdita della disponibilità del bene, il quale perderebbe così la stessa utilità che avrebbe se fosse libero.

Per tale motivo, risulterebbe accertabile dal Giudice solo mediante presunzioni e, la liquidazione, deriverebbe da un cd. danno figurativo.

Nel caso di specie, un condominio ha citato in giudizio il proprietario di un locale commerciale sito all’interno del condominio perché ha occupato un garage dello stabile con paletti e catene, impedendo così l’accesso agli altri condomini.

Il condomino convenuto si è costituito in giudizio invocando la proprietà esclusiva del bene.

La Suprema Corte ha affermato che colui che ha subito il danno è onerato della prova del pregiudizio patrimoniale patito.

Il fatto lesivo coincide con il danno subito, quindi con l’occupazione della “res” e, una volta allegato il “danno conseguenza”, le circostanze assunte dal danneggiato verranno considerate su base presuntiva-probabilistica.

Studio Legale Damoli

Sent. cortile condominio

Le Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32358, pubblicata il 13 dicembre 2018, hanno respinto il ricorso proposto da Juventus Football Club contro il C.O.N.I. ed F.C. Internazionale, confermando la sentenza della Corte d’Appello di Roma che ha definitivamente assegnato lo scudetto per la stagione 2005/06 ai nerazzurri.

Il fatto.

Come ricorderanno gli appassionati, la stagione 2005/06 del campionato di calcio di Serie A si è conclusa con la Juventus prima classificata, il Milan seconda e l’Inter sul gradino più basso del podio.

A seguito di un procedimento disciplinare per illeciti sportivi aperto nei confronti delle prime due posizionate, però, i bianconeri sono stati retrocessi in Serie B ed i rossoneri pesantemente penalizzati. Di conseguenza, nel luglio del 2006, su delibera del Commissario straordinario della F.I.G.C., il titolo di “Campione d’Italia” è stato assegnato all’Inter.

Nel 2011, la Società torinese ha chiesto alla F.I.G.C. di revocare, in autotutela, lo scudetto assegnato alla squadra di Milano, non vinto sul campo, a causa delle inchieste sorte all’epoca nei confronti di quest’ultima Società, poi tutte archiviate.

La Federazione, tuttavia, non ha accolto tale richiesta.

Così la medesima squadra di Torino si è rivolta al T.N.A.S. (Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo Sport), chiedendo la revoca sia della deliberazione commissariale, sia del provvedimento federale, oltre ad un congruo risarcimento dei danni.

Questo Collegio Arbitrale, con lodo del 15 novembre 2011, ha respinto la domanda, dichiarando la propria incompetenza a decidere. Ha ritenuto, infatti, che la richiesta, palesemente riguardante il mondo dello sport, concernesse una situazione giuridica soggettiva (formalmente e sostanzialmente) indisponibile da parte della F.I.G.C. e, pertanto, non compromettibile.

La Società torinese, allora, ha impugnato per nullità il lodo del T.N.A.S. dinanzi alla Corte d’Appello di Roma, chiedendo, anche in questa sede, la disapplicazione dei due predetti provvedimenti.

Con sentenza n. 7023 del 22 novembre 2016, i giudici romani hanno dichiarato di non poter conoscere l’impugnazione del lodo arbitrale, per difetto assoluto di giurisdizione.

La Juventus, quindi, ha proposto ricorso dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiedendo di dichiarare la giurisdizione ordinaria della Corte d’Appello di Roma, o quella amministrativa del T.A.R. per il Lazio.

La pronuncia delle Sezioni Unite.

Con la sentenza in commento è stato rigettato il ricorso in quanto dichiarato infondato.

Gli Ermellini, in particolare, dopo aver preliminarmente ribadito il principio (già sancito in Cass., SS.UU., n. 18052/2010) per il quale “la giustiziziabilità della pretesa dinanzi alla giustizia statale costituisce una questione non di giurisdizione ma di merito“, hanno confermato quanto osservato dalla Corte territoriale in materia di autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale.

Per pacifico orientamento della giurisprudenza costituzionale, infatti, le questioni riguardanti la regolarità delle competizioni ed il corretto svolgimento delle attività agonistiche sono riservate all’autonomo ordinamento sportivo. Possono essere devolute al giudice ordinario, per contro, solo le vertenze patrimoniali tra società, atleti e tesserati.

A causa, dunque, del chiaro oggetto dell’impugnazione del lodo del T.N.A.S., e cioè “l’attribuzione e la revoca (quale contrarius actus) del titolo di campione d’Italia“, le Sezioni Unite hanno definitivamente ritenuto la questione rientrante nell’autonomia dell’ordinamento calcistico e assolutamente irrilevante per l’ordinamento statale.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.