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Il Notaio incorre in responsabilità professionale qualora non adempia correttamente la propria prestazione.

La dovuta diligenza non si espleta solo nella redazione dell’atto richiesto dalle parti, ma comprende anche le cd. attività preparatorie.

La responsabilità è, però, da escludere qualora tutte le parti che procedono alla stipula lo abbiano espressamente esonerato da tale attività.

Il fatto

Un signore ha acquistato un immobile con scrittura privata autenticata da un Notaio.

In seguito, si è scoperto che sul bene gravava un’ipoteca giudiziale.

L’acquirente ha, dunque, dovuto corrispondere una somma ulteriore rispetto al prezzo pattuito originariamente per liberare gli immobili.

Lo stesso ha, poi, citato in giudizio il Notaio chiedendo il risarcimento dei danni patiti.

Dapprima, il Tribunale di Roma e, in secondo grado, la Corte d’Appello capitolina hanno rigettato la domanda del compratore, rilevando che nel contratto di compravendita si è espressamente esonerato il Pubblico Ufficiale ad eseguire le verifiche ipotecarie e catastali.

Il soccombente ha, allora, promosso ricorso per cassazione, in quanto il professionista non avrebbe provato di aver diligentemente adempiuto al mandato professionale.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 14169, pubblicata il 24 maggio 2019, ha respinto il ricorso perché inammissibile e privo di fondamento.

Nel caso di specie, infatti, le parti hanno esplicitamente esonerato il Notaio dall’onere di compiere le dovute visure ipotecarie e catastali, per ragioni di urgenza.

Non è stato, inoltre, dimostrato che il professionista fosse già a conoscenza dell’esistenza di formalità pregiudizievoli e che avesse comunque percepito un compenso per tale attività.

Non sono integrati, pertanto, i presupposti legittimanti la responsabilità professionale dello stesso.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Di recente, con la sentenza n. 8208/2019, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna di Poste Italiane al risarcimento dei danni per l’infortunio occorso ad un proprio dipendente (portalettere) mentre eseguiva la propria mansione.

Il fatto

Il caso riguarda un “postino” di Poste Italiane che, percorrendo una strada non asfaltata e sconnessa, con il motorino aziendale, cadeva rovinosamente a terra riportando una lesione alla mano (amputazione falange del IV dito). Promosso ricorso contro la società per il risarcimento del danno, la domanda veniva accolta in primo grado e in appello in quanto Poste Italiane non aveva fornito la prova di aver adottato tutte le misure necessarie a prevenire l’infortunio. L’incidente, infatti, era avvenuto per l’inadeguatezza del motoveicolo aziendale per il tragitto lungo strade non asfaltate ovvero lungo vie “campagna”.

La pronuncia

La Suprema Corte ha respinto il ricorso di Poste Italiane colpevole di non aver adottato ogni misura necessarie ad impedire l’evento. In particolare, l’incidente non è avvenuto per mero caso fortuito ma per la violazione di un preciso obbligo di protezione cui è tenuto il datore di lavoro di cui all’art. 2087 c.c. Tale norma prevede, infatti, che l’imprenditore è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare la salute dei propri dipendenti.

Orbene, nel caso di specie, il motorino è risultato inadeguato in relazione alle particolari caratteristiche delle sedi stradali (vie non asfaltate o sconnesse). Quindi, l’incidente è stato determinato da un inadempimento del datore di lavoro in quanto non ha fornito al proprio dipendente mezzi idonei a percorrere strade non asfaltate.

Cassazione Infortunio Postino

Dott. Fabio Caretta

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona. È iscritto all’Ordine degli Avvocati di Vicenza nel Registro dei Praticanti. È esperto in diritto del lavoro, bancario e finanziario.

Con la ordinanza n. 1188, depositata il 17 gennaio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dalla condomina danneggiante, poiché il giudice di prime cure ha omesso di tenere in considerazione il comportamento del condomino opposto, risultato ostile all’attività manutentiva del terrazzo.    

Il fatto

Un condomino ha proposto richiesta di risarcimento danni nei confronti di un altro condomino, poiché, dal comportamento di quest’ultimo, sono derivate infiltrazioni provenienti dal sovrastante terrazzo a livello.

Il Giudice ha condannato il propietario dell’appartamento sovrastante al risarcimento danni.

La condomina ha impugnato la sentenza davanti al Tribunale, affermando che non ha potuto sostenere nessuna attività di manutenzione del terrazzo, per perdita di titoli edilizi derivanti del diniego da parte del condomino sottostante.

Il Tribunale ha rigettato l’appello, affermando che, per i danni cagionati per infiltrazioni d’acqua derivanti dall’appartamento sovrastante, ne devono rispondere tutti i condomini in base alle proporzioni ex art. 1126 c.c.

Ha proposto ricorso in Cassazione.

La pronuncia

Il motivo di ricorso è stato accolto dalla Corte di Cassazione, poichè, la proprietaria, ha assunto la violazione degli artt. 112 e 132, n.4, c.p.c., motivando la mancata insussistenza delle proprie responsabilità ex art. 2051 c.c.

Tale mancata manutenzione del terrazzo, non è derivata da responsabilità della ricorrente, bensì tutti i condomini si sono opposti alla manutenzione, non permettendole così di apporre opere di miglioria e perdendo il beneficio dei provvedimenti comunali (sospensione del titolo edilizio).


Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con l’ordinanza n. 3877, depositata in data 08 febbraio 2019, la Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione ha stabilito che, il coniuge che abbandona il tetto coniugale e interrompe l’erogazione dei contributi economici della famiglia, gli venga addebitata la separazione.

Il fatto

La controversia ha riguardato la separazione personale di due coniugi.

Tale vicenda, si è basata sull’abbandono del tetto coniugale da parte del marito, con conseguente richiesta, da parte della moglie, della separazione a carico dello stesso.

La richiesta di addebito della separazione, è scaturita dall’abbandono unilaterale della abitazione e dall’interruzione dei contributi economici della famiglia.

Sul punto, è stato quindi promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 3877/2019, ha avvalorato il provvedimento adottato dalla Corte di Appello di Venezia, e ha convalidato l’addebito della separazione nei confronti del coniuge per i motivi che seguono: in primo luogo, l’omesso contributo economico nei confronti e per il mantenimento della famiglia, e in secondo luogo, riguardo all’abbandono del tetto coniugale.

Non è stato accolto il motivo di ricorso che ha enucleato l’avvocato, affermando che, l’uomo, ha abbandonato l’abitazione per intollerabilità della vita con la coniuge.

La Corte, con tale ordinanza, ha voluto ribadire che l’addebito della separazione è previsto sia, per l’abbandono della casa, che per l’interruzione del mantenimento familiare.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la sentenza n. 4147/2019, depositata in Cancelleria il 13 febbraio 2019, la Corte Suprema di Cassazione ha affermato che il terzo trasportato, in caso di danno, deve essere sempre risarcito dalla compagnia assicuratrice del veicolo, a prescindere dalla responsabilità dei conducenti.    

Il fatto

A seguito di uno scontro tra due veicoli, sono deceduti il conducente di un mezzo e un passeggero, mentre gli altri soggetti hanno riportato solo lesioni.

Una delle compagnie assicuratrici, per far accertare le responsabilità, conveniva in giudizio i danneggiati per richiedere che venisse liquidato il danno entro il massimale in favore dei danneggiati.

I parenti del soggetto deceduto hanno proposto domanda di risarcimento danni nei confronti della assicurazione; inoltre, anche i familiari del passeggero deceduto, citarono in giudizio la propria compagnia assicuratrice.

La pronuncia

Il motivo di ricorso è stato sottoposto alla attenzione della Corte di Cassazione, cercando di inserire la figura del passeggero, come beneficiario di polizza, e quindi, se può agire, ex art. 141 codice delle assicurazioni private, indipendentemente dalla responsabilità del sinistro stradale.

L’assicurazione deve coprire anche i danni al passeggero, nonostante il rapporto che intercorre tra il conducente e lo stesso trasportato, che sorgono da un eventuale incidente stradale.

Il terzo, quindi, può agire nei confronti della compagnia assicuratrice del conducente del veicolo, per avanzare formale richiesta di risarcimento in caso di danni alla sua persona.

La Suprema Corte, per tale presupposto, accoglie il ricorso, dato che la decisione in appello è stata considerata erronea, poichè, il Giudice, non avrebbe dovuto condannare il ricorrente principale a risarcire i trasportati sopravvissuti.

Allo stesso modo, il Giudice di appello, quando ha riformato la sentenza di primo grado, non avrebbe dovuto riconoscere il risarcimento ai familiari del trasportato deceduto, poichè era stata riconosciuta la mancanza di responsabilità nel sinistro stradale.

Studio Legale Damoli

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Con l’ordinanza n. 2531/2019, pubblicata il 30 gennaio 2019, la Terza Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione ha stabilito che il conducente di un autoveicolo è responsabile dell’utilizzo delle cinture di sicurezza da parte del passeggero.

Il fatto

A seguito di un incidente stradale, il danneggiato terzo trasportato ha citato in giudizio il proprietario della vettura danneggiante, la compagnia assicurativa di quest’ultimo ed il conducente del veicolo danneggiato, per accertare la responsabilità del primo nella causazione del sinistro ed ottenere il risarcimento dei danni subiti, patrimoniali e non.

Si è costituita l’assicurazione, eccependo che le lesioni subite dall’attore si sono verificate per l’esclusiva e determinante responsabilità dello stesso, in quanto non ha indossato le cinture di sicurezza.

Il Tribunale di Cosenza ha condannato i convenuti in solido al risarcimento del danno biologico e del danno patrimoniale futuro subito dall’attore.

Sull’impugnazione proposta dalla compagnia assicurativa, la Corte d’Appello di Catanzaro ha rivalutato le prove e ha ritenuto incompatibili le lesioni riportate dal danneggiato e l’uso delle cinture di sicurezza. Di conseguenza, ha riconosciuto il concorso tra il comportamento del danneggiante e quello del danneggiato, riducendo proporzionalmente il risarcimento, in ragione dell’entità del contributo causale di quest’ultimo alla produzione del danno, ed escludendo in toto il danno patrimoniale, perché riconducibile al comportamento dello stesso.

Il danneggiato ha quindi proposto ricorso per cassazione perché i giudici di secondo grado avrebbero errato nell’escludere il nesso causale tra la condotta del conducente e la produzione del danno e nel non rilevare che, pur in presenza di una riduzione del risarcimento dovuto al concorso di colpa del danneggiato, è rimasto fermo il nesso causale tra la condotta del conducente ed il danno.

La pronuncia

La Suprema Corte ha accolto le ragioni del ricorso. Il comportamento colpevole del danneggiato, infatti, non può in alcun caso interrompere il nesso causale tra la condotta del conducente del veicolo e la produzione del danno.

Ha ribadito, poi, il consolidato principio (già espresso in Cass. 18177/2007) secondo il quale il conducente è responsabile dell’utilizzo delle cinture di sicurezza da parte del passeggero. La causazione del danno da mancato utilizzo, quindi, è imputabile sia all’uno che all’altro. Ciò in quanto il conducente ha l’obbligo di mettere in circolazione il veicolo in condizioni di sicurezza. Deve controllare, cioè, che la marcia avvenga in conformità delle norme di prudenza e sicurezza anche nell’ipotesi in cui il trasportato, accettando i rischi della circolazione, cooperi colposamente nella condotta causativa dell’evento dannoso.

Nell’ipotesi di danno al trasportato, allora, sebbene la condotta di quest’ultimo non sia idonea ad escludere di per sé la responsabilità del conducente, può certamente costituire un contributo colposo alla verificazione del danno.

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Con la recente ordinanza n. 31185 del 3 dicembre 2018, la Suprema Corte di Cassazione ha delineato i limiti della responsabilità di una banca per il fatto illecito commesso dai propri dipendenti.

Il fatto.

Due attori, persone fisiche, hanno convenuto in giudizio la Banca, chiedendo l’accertamento dell’insussistenza di loro obbligazioni nei confronti del medesimo Istituto di credito sulla base delle movimentazioni relative al conto corrente loro cointestato, nonché la condanna della parte convenuta al risarcimento dei danni subiti per essere stati imputati del reato di appropriazione indebita.

La banca ha chiamato in manleva due propri dipendenti, autori materiali delle condotte fonte di danno.

Il Tribunale di Lodi ha solamente accolto la domanda di accertamento negativo degli attori, rigettando la richiesta di condanna nei confronti dei dipendenti della Banca.

La Corte d’Appello di Milano ha anche condannato la Banca al risarcimento dei danni patiti dagli attori.

La pronuncia.

Sul ricorso promosso dall’Istituto, la Corte ha stabilito che “la responsabilità della banca per fatto illecito dei suoi dipendenti scatta ogniqualvolta il fatto lesivo sia stato prodotto, o quanto meno agevolato, da un comportamento riconducibile all’attività lavorativa del dipendente, e quindi anche se questi abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all’insaputa del suo datore di lavoro, sempre che sia rimasto comunque nell’ambito dell’incarico affidatogli“.

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