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Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio è tornato ad esprimersi sul lanoso problema della relazione tra Ordinamento Statale e Ordinamento dello Sport con la Sentenza n. 2140 del 27.03.2019.

Il fatto

Il ricorrente era stato eletto consigliere di un’associazione sportiva affiliata ad una federazione sportiva riconosciuta dal C.O.N.I. Tuttavia, la Commissione di Disciplina della federazione interessata aveva deciso che l’elezione non potesse essere convalidata per ragioni legate all’ineleggibilità del ricorrente.

Il ricorrente esaurite tutte le vie di ricorso dinnanzi agli organi di giustizia sportiva, aveva introdotto ricorso al T.A.R. funzionalmente competente avverso le decisioni assunte in ambito sportivo.  Il giudice adito ha però rigettato il ricorso per difetto di giurisdizione. La sentenza assume particolare interesse giacché ribadisce quale sia la corretta lettura ermeneutica da dare alle norme che devono guidare l’interprete nell’individuazione del confine tra giurisdizione statale e sportiva.

Il giudice speciale ricorda che in virtù del principio di autonomia tra i due ordinamenti, l’art. 2 della Legge n. 280/2003 permette d’individuare quali siano i casi toccati dal difetto di giurisdizione:

  • osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive;
  • i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive.

L’art. 3, infine, pone il principio secondo cui esauriti i gradi della giustizia sportiva ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ai sensi dell’art. 2, sia devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

La pronuncia

Il T.A.R. ha confermato che, escluse le controversie aventi rilevanza per l’Ordinamento Statale tali perché riguardanti interessi legittimi o diritti soggettivi, la giustizia sportiva costituisce l’unico strumento di tutela per le ipotesi in cui si discuta circa la corretta applicazione delle regole sportive.

La lite all’origine del ricorso concernendo l’eleggibilità del ricorrente quale consigliere di un’associazione sportiva riguarda, in ultima analisi, l’osservanza delle norme regolamentari, organizzative e statutarie di una federazione sportiva.

È indubbio che tali controversie debbano essere ricondotte nella sfera di autonomia riservata all’Ordinamento dello Sport. Da tanto ne discende che la questione relativa all’ineleggibilità del ricorrente per una carica sociale, non palesando rilevanza esterna all’ordinamento sportivo e rientrando tra le materie dell’art. 2 della Legge n. 280/2003, imponga al Tribunale Amministrativo di dichiarare il difetto di giurisdizione.

Sentenza T.A.R. ord statale e ordinamento sportivo

Avv. Federico Tosi

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano e in Diritto Belga presso l’Université Catholique de Louvain-la-Neuve. Ha conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Bari ed è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Bari. Si occupa di Diritto Civile e di Diritto dello Sport.

La sezione VI del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1480/2019, depositata in data 4 Marzo 2019, ha ritenuto che la realizzazione di una tettoia a servizio di un edificio sia sottratta al rilascio di un permesso di costruire qualora abbia finalità di mero arredo e di protezione dell’immobile cui accede ma non ne alteri la sua sagoma.

Il fatto

Il Tar Lazio, sezione Latina, rigettava il ricorso presentato da una signora che aveva impugnato l’ordinanza di demolizione di una tettoia prefabbricata in metallo con tamponatura bilaterale asservita all’esercizio di un’attività commerciale.

La signora proponeva appello avverso la sentenza del TAR ritenendo si trattasse di una mera pertinenza in senso urbanistico.

La pronuncia

Secondo la giurisprudenza della sezione, “il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di una tettoia è necessario solo quando, per le sue caratteristiche costruttive, essa sia idonea ad alterare la sagoma dell’edificio; l’installazione della tettoia è invece sottratta al regime del permesso di costruire ove la sua conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo dell’immobile cui accedono”.

Nel caso di specie la tettoia costruita, tamponata lateralmente, era di dimensioni tali da aver innovato il manufatto preesistente da un punto di vista morfologico e funzionale, con un’evidente variazione planivolumetrica ed architettonica che rendeva necessario il rilascio del permesso di costruire per l’installazione della tettoia.  

Consiglio di Stato, sez. VI, 4 marzo 2019 tettoia

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

La Corte d’appello di Palermo, con la sentenza n. 1331/2017, depositata in data 08 luglio 2017, ha rigettato quanto statuito dal Tribunale, affermando che non risulta equivoco, l’inserimento in etichetta, che il vino viene prodotto con l’esclusione di sostanze chimiche.

Il fatto

Una Azienda Agricola ha inserito nelle etichette delle proprie bottiglie la dicitura: “il vino viene prodotto con l’esclusione di sostanze chimiche di sintesi nella coltivazione delle uve” e di adottare “metodi particolari per rispettare al massimo la genuinità”.

Tali definizioni sono state ritenute inidonee ed equivoche nei confronti dei consumatori/lettori, poichè potrebbero ingenerare la possibilità di ritenere tali vini come biologici.

L’azienda agricola si è opposta alle sanzioni irrogate ai sensi dell’art. 1 comma 8 del D.Lgs. n. 260 del 2000, in relazione alle norme contenute nel regolamento CE 1493/1999, disposte dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali.

Inoltre, ha chiesto anche l’annullamento delle ordinanze-ingiunzione che hanno disposto la confisca di n. 2640 bottiglie di una tipologia di vino, e di altro tipo di vino con n. di bottiglie pari a 26.040, e con relativo pagamento di somme di denaro.

La pronuncia 

La Corte di appello di Palermo ha affermato che tale descrizione non può ritenersi sufficiente a far insorgere dubbi nel consumatore circa la qualità biologica del prodotto, ma, semmai, tende a mettere in evidenza le competenze enologiche e di viticultura dell’azienda agricola.

Per tale motivo, la Corte, in riforma della sentenza del Tribunale di Agrigento, ha condannato il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali  ed ha annullato le ordinanze di ingiunzione, ordinando la restituzione delle bottiglie di vino con esse confiscate e al pagamento delle spese processuali.

Vino biologico etichetta non qualifica tale vino

 

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 7190/2019, depositata in data 13 marzo 2019, ha affermato che, ai sensi dell’art. 18 della Legge Fallimentare, sia il debitore che qualunque soggetto che sia interessato ad impugnare la sentenza dichiarativa di fallimento, può esercitare l’azione se, dalla stessa, derivano “effetti riflessi negativi” morali o patrimoniali.

Il fatto

E’ stato dichiarato inammissibile, dalla Corte di Appello, il reclamo contro la dichiarazione di fallimento.

La Corte, ha precisato che colui che ha proposto il reclamo, non essendo mai stato socio né amministratore della fallita, non fosse legittimato ad impugnare la sentenza di fallimento poiché egli era solo il liquidatore della società. 

Proposto ricorso in Cassazione, il soggetto istante ha affermato l’erronea visione della Corte del riesame, poiché era stato sia amministratore della società, fino al sequestro penale delle quote della società, ma era anche il titolare delle suddette quote.

La pronuncia 

Gli Ermellini hanno precisato che l’art. 18 della Legge Fallimentare afferma che qualunque soggetto interessato, ha la legittimazione al reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento e per questo anche all’amministratore di una società di capitali.

Questo potere che viene concesso ai legittimari ha la finalità di escludere “effetti riflessi negativi” morali e patrimoniali che possono verificarsi conseguentemente alla dichiarazione di fallimento. 

La Corte precisa che, chiunque dovesse subire un danno che deriva dalla dichiarazione, non è rilevante che posizione ricopra al momento della dichiarazione. 

In conclusione, è stato accolto il ricorso dell’istante ed è stata cassata la sentenza rinviandola alla Corte d’Appello, precisando che, a prescindere dalla carica ricoperta dal soggetto, se viene emesso un provvedimento che va a danneggiare il capitale sociale e il compendio aziendale vi è la possibilità di ricorrere.

Fallimento società dichiaraizone tutti possono proporre reclamo se interessati

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La Corte d’Appello di Venezia si è espressa in merito ad un caso riguardante il reato di turbativa d’asta, di cui all’art. 353 c.p., con la sentenza n. 1321/2017. Il giudice di secondo grado, nell’assolvere gli imputati, ha fissato alcuni interessanti principi in materia di prova del reato in analisi che, come noto, presenta quale elemento costitutivo la così detta “combine”. La vicenda trae origine da una sentenza di condanna, emessa in primo grado, a carico di tre imprenditori per aver turbato, mediante collusione tra loro, l’esito di una procedura d’evidenza pubblica.

Il fatto

Il giudice di primo grado aveva valorizzato alcuni elementi fattuali per dimostrare che le diverse offerte provenissero, in realtà, da un unico centro d’interesse e potessero dirsi, a priori, concordate.

Tra questi elementi spiccava che in una diversa e precedente procedura d’evidenza pubblica due delle società avessero costituito un’associazione temporanea d’imprese.

Ciò poteva dirsi, ex se, bastevole per provare che nella diversa e successiva gara gli imprenditori avessero assunto, solo formalmente, la veste di concorrenti e avversari.

Inoltre, un ulteriore elemento corroborava l’ipotesi imputativa ex art. 353 c.p.; due degli imputati avevano ricoperto la carica di consiglieri in un organo direttivo di uno stesso ente associativo e, pertanto, avevano chiaramente fitte cointeressenze tra loro.

Impugnata la sentenza di primo grado, i difensori degli imputati criticavano le conclusioni del giudice di prime cure contestando che l’esistenza dell’accordo collusivo non potesse fondarsi su elementi fattuali privi di riscontro e, comunque, mancanti dei requisiti di cui all’art. 192 c.p.p.

Di particolare interesse è che i difensori abbiano impugnato la sentenza mettendo in evidenza che la precedente partecipazione ad una gara indetta da diversa amministrazione, nelle forme dell’associazione temporanea d’imprese, non potesse giovare alle tesi accusatorie. Invero, era da escludersi che la prova dell’unicità del centro decisionale si potesse ricavare, anche solo in via presuntiva,  sfruttando un istituto perfettamente lecito in quanto previsto dal Codice degli Appalti.

A ciò doveva aggiungersi che nulla vietava a due imprese, per ragioni economiche e di convenienza, di partecipare in ATI ad una determinata procedura e affrontarsi da avversarie in un’altra.

I difensori degli imputati ribadivano anche un ulteriore aspetto assolutamente condivisibile. L’eventuale collegamento sostanziale tra imprese non forma un autonomo elemento da cui trarre la prova del reato in parola poiché sempre s’impone la prova del fatto, fondata su elementi univoci, che le offerte provengano da un unico centro decisionale.

La pronuncia

Il principio affermato dal giudice dell’impugnazione è il seguente: la formazione di un’associazione temporanea d’imprese in una gara precedente a quella dove si sarebbe consumato il reato cui all’art. 353 c.p., essendo una pratica assolutamente lecita, non può di per sé assurgere a prova della turbativa d’asta. Inoltre, l’aver ricoperto entrambi una identica carica sociale in uno stesso ente associativo non prova la sussistenza di fitte cointeressenze tra imprenditori, giacché elementi quali il conoscersi e frequentare gli stessi ambienti sono dati di fatto penalmente irrilevanti ex art. 353 c.p..

Sulla base di tali presupposti gli imputati sono stati assolti “perché il fatto non sussiste”.

Turbativa

Avv. Federico Tosi

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano e in Diritto Belga presso l’Université Catholique de Louvain-la-Neuve. Ha conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Bari ed è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Bari. Si occupa di Diritto Civile e di Diritto dello Sport.

La Sezione quinta, della Corte di Cassazione Penale, ha dichiarato, con la sentenza n. 8736/2018, l’idoneità, dello screenshot, ad essere utilizzato in giudizio come prova documentale, senza necessità di avvalersi della procedura di accertamento tecnico irripetibile.

Il fatto

Il direttore di una testata giornalistica, in primo grado, è stato condannato per diffamazione, poichè ha pubblicato alcuni articoli, offendendo la reputazione di un politico, questo, basato su una prova decisiva costituita da una copia cartacea delle schermate telematiche del sito internet.

Il Giudice dell’appello, ha ritenuto non attendibile la prova documentale dello screenshot, perchè non autenticata da un Notaio, annullando, così, la condanna.

La pronuncia

Proposto ricorso in Cassazione, gli Ermellini hanno confermato le veridicità e la bontà della prova documentale, lo screenshot, precisando che tutti i dati informatici che vi sono in un computer sono prove documentali e non è necessaria alcuna garanzia.

Di talchè, ogni documento acquisito liberamente è utilizzabile, sarà poi il Giudice a valutare l’attendibilità o meno della prova.

La Cassazione ha ricondotto lo screenshot nel novero delle prove documentali disciplinate dall’art. 234 c.p.p., precisando che, in nessun caso, per acquisire determinati dati, è necessario l’accertamento tecnico irripetibile ma può bastare una operazione meccanica che non vada ad alterare il contenuto dei dati.

Scheenshot valido come prova documentale

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Con la sentenza n. 738, pubblicata il 23 ottobre 2018, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Massa ha definito il concetto di lesione del decoro architettonico conseguente alla realizzazione di opere sulle parti in proprietà esclusiva di un condominio.

Il fatto

Il proprietario dell’appartamento posto all’ultimo piano di uno stabile condominiale ha eseguito alcune opere presso la sua abitazione.

Tra queste, ha chiuso il lastrico solare di proprietà esclusiva, ha modificato tutti i parapetto dell’attico, ha aperto una seconda porta d’accesso all’appartamento, ha chiuso alcune finestre del piano casa condominiale e ha demolito la canna fumaria comune.

Gli altri condomini, dunque, lo hanno citato in giudizio per far accertare l’illiceità delle opere realizzate dallo stesso e sentirlo condannare a ripristinare lo stato dei luoghi, avendo le stesse modificato il prestigio del palazzo.

La pronuncia

Il Tribunale toscano ha, preliminarmente, ricostruito la nozione di decoro architettonico come delineata dalla Suprema Corte di Cassazione.

Esso riguarda l’estetica del fabbricato fornita dalle linee e dalle strutture ornamentali che costituiscono la nota dominante dell’edificio, ma non l’impatto dell’opera con l’ambiente circostante.

L’alterazione dello stesso, allora, deve valutarsi non solo con riferimento all’armonia di dette linee e strutture, ma anche alla modifica dell’originario aspetto di singoli elementi che abbiano una sostanziale autonomia, tale da causare significative ripercussioni pregiudizievoli nella valutazione economica delle singole unità immobiliari.

Il singolo condomino, che esegue opere sulle parti di proprietà esclusiva, altera dunque il decoro architettonico dello stabile se, tenendo conto delle caratteristiche dell’edificio al momento dell’opera, modifica l’avvenenza dell’intero fabbricato, o di parti di esso, e reca un pregiudizio tale da comportare un deprezzamento dello stesso e delle unità immobiliari in esso comprese.

Nel caso in esame, all’esito dell’istruttoria svolta, il giudice ha ritenuto che le innovazioni realizzate dal condomino dell’ultimo piano non fossero tali da pregiudicare il decoro dell’intero edificio e, quindi, ha respinto tutte le domande proposte dagli attori.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la sentenza n. 4/2019, la Seconda Sezione Civile della Corte d’Appello di Brescia, ha riconosciuto come validamente effettuata la convocazione dell’assemblea di condominio avvenuta attraverso l’invio dell’avviso ad un indirizzo di posta elettronica non certificato.

Il fatto

Con sentenza n. 790/2016, il Tribunale di Brescia ha respinto in toto le richieste dell’attore e lo ha condannato al pagamento delle spese di giudizio.

Il soccombente ha, quindi, impugnato la predetta sentenza per violazione dell’art. 66 disp. att. c.c., in quanto il giudice di prime cure avrebbe errato nel ritenere che la convocazione sarebbe avvenuta correttamente con le modalità richieste dallo stesso attore/appellante, ossia via email.

L’avviso di convocazione, invece, avrebbe dovuto essergli comunicato a mezzo PEC.

La pronuncia

Per la Corte d’Appello di Brescia è corretto ritenere che la PEC sia l’unico strumento equipollente alla raccomandata, perché solo con tale modalità, pervenendo all’amministratore la ricevuta di consegna, si ha la prova della ricezione dell’avviso predetto.

Nel caso di specie, tuttavia, è stato lo stesso condomino a richiedere la comunicazione attraverso un mezzo “informale”, quale l’email.

Ne consegue che, avendo rispettato le forme indicate dal medesimo soggetto per la convocazione dell’assemblea condominiale, non risulta necessario l’invio dell’avviso alla PEC dello stesso.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la recente sentenza n. 1028 del 16 gennaio 2019, la Sesta Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il principio (già espresso, da ultimo, in Cass. n. 11028/2016) secondo il quale per privare di valore probatorio un foglio firmato totalmente o parzialmente in bianco, è necessaria la querela di falso e non il semplice disconoscimento di scrittura privata.

Il fatto

Nell’ambito di una compravendita di un’autovettura, il rivenditore ha consegnato l’automobile all’acquirente, provvedendo anche ad effettuare il passaggio di proprietà, mentre quest’ultimo ha pagato il prezzo del bene ed ha consegnato una fotocopia della propria patente, sottoscrivendola e indicando il proprio numero di telefono.

In un secondo momento, il commerciante ha riportato su questo foglio, di suo pugno, alcune righe di testo per obbligare il compratore a pagare un prezzo superiore rispetto a quello pattuito. Poi lo ha citato in giudizio per ottenere il pagamento, per l’intero, dell’importo maggiorato.

Il cliente, costituitosi in giudizio, ha eccepito l’avvenuto pagamento della minor somma realmente pattuita e ha disconosciuto, ai sensi dell’art. 214 c.p.c., il contenuto della scrittura privata intercorsa tra le parti.

Il Tribunale e, poi, la Corte d’Appello di L’Aquila hanno accolto la domanda del concessionario, condannando l’acquirente alla corresponsione, per l’intero, dell’importo più elevato.

La pronuncia

Anche i giudici del Palazzaccio hanno dato ragione al venditore, in quanto il compratore ha errato nella scelta dello strumento processuale: anziché proporre il disconoscimento della scrittura privata, avrebbe dovuto proporre la querela di falso.

Sul documento in questione, infatti, vi è rappresentata la copia fotostatica della patente del cliente, la sua sottoscrizione ed il suo recapito telefonico, oltre al testo riportato dal venditore. L’acquirente non ha contestato l’autenticità della firma collocata in calce alla scrittura, riconoscendo come proprio anche il documento d’identità raffigurato, ma ha unicamente disconosciuto il contenuto dell’atto. In sostanza, ha negato formalmente che il testo del documento fosse scritto di suo pugno, ma ha confermato che la sottoscrizione fosse la sua.

Quest’ultima, tuttavia, ai sensi dell’art. 2702 c.c., “vale ad ingenerare una presunzione iuris tantum di consenso del sottoscrittore al contenuto dell’atto e di assunzione di paternità dello scritto indipendentemente dal fatto che la dichiarazione non sia stata vergata o redatta dal sottoscrittore“.

Pertanto, per contestare la verità del testo e superare la predetta presunzione, cioè per denunciare il riempimento abusivo di un foglio absque pactis, sarebbe stata necessaria la querela di falso, disciplinata dagli artt. 221 e seguenti c.p.c..

Studio Legale Damoli

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