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Con sentenza n. 23/2019, depositata il 26 aprile 2019, il Tribunale di Roma ha stabilito che la responsabilità contrattuale, con conseguente risarcimento del danno, dell’inadempimento dell’amministratore di condominio dei suoi doveri, è prevista solo nel caso in cui si sia arrecato un effettivo pregiudizio patrimoniale al condominio.

Il fatto

Il caso di specie riguarda un amministratore di condominio che è stato citato in giudizio da un condominio, il quale ha assunto che lo stesso professionista non ha tenuto diligentemente la contabilità condominiale e ha posto in essere gravi inadempimenti contrattuali come la mancata convocazione di assemblee ordinarie e straordinarie, e l’omesso rendimento di conti consuntivi.

L’amministratore ha contestato la domanda di appropriazione indebita di fondi condominiali ed, in particolare, l’assunta negligenza professionale nell’adempiere qaunto previsto da mandato.

La pronuncia 

 La necessità è quella, da una parte, di dare la prova della responsabilità del professionista e, dall’altra, dimostrare i danni che ha subito il condominio.

Per tale motivo il condominio deve dimostrare la mala gestio del l’amministratore con i relativi errori posti in essere, il professionista dal canto suo deve dimostrare la correttezza del suo comportomanto.

In conclusione, l’amministratore è stato condannato solo per una carenza riguardo alla gestione economica sul conto corrente condominiale.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Il Tribunale di Asti, con sentenza n. 387/2019, depositata il giorno 08 maggio 2019, ha condannato un legale rappresentante di una azienda agricola a 6 mesi di reclusione ed Euro 6.000,00 di multa per avere alterato il vino “Barolo”.

Il fatto

L’operazione è stata posta in essere vinificando delle uve Nebbiolo fuori dal territorio di origine previsto dal disciplinare di produzione.

I controlli effettuati dai NAS, hanno portato alla luce che il titolare dell’azienda agricola vinificava, invecchiava e imbottigliava, non nella azienda del cognato, che si trovava in Barolo, come aveva dichiarato, bensì fuori dai confini del territorio autorizzato.

La pronuncia 

Il Giudice ha ritenuto di condannare l’imputato, poichè nessun motivo fatto valere dalla parte era in grado di sconfessare quanto orchestrato.

Il vino Barolo è stato classificato come denominazione di origine ed il Giudice è partito da questo assunto per applicare l’art. 517 quater c.p..

Il D.M. 17 aprile 2015, all’art. 5, afferma che “le operazioni di vinificazione ed invecchiamento devono essere effettuate nella zona delimitata dall’art 3”.

Per tale motivo è stato applicato l’art. 517 quater c.p., poichè la rilevanza penale della contraffazione, dell’alterazione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari, non richiede l’idoneità delle indicazioni ingannevoli che portano il consumatore ad essere indotto in errore.

Con la sentenza dovranno essere confiscati e distrutti 258 ettolitri di vino e 692 bottiglie di vino falsamente attestato Barolo DOCG.

 Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Con la sentenza n. 2190 del 20 maggio 2019, il Tribunale di Bari ha chiarito e ribadito il valore processuale della quietanza liberatoria

Il fatto

All’origine della lite, vi era un contratto di cessione del credito.

Tuttavia, la parte cedente conveniva in giudizio la cessionaria chiedendo condanna della stessa a causa del supposto mancato pagamento del prezzo pattuito.

Costituitosi in giudizio, il convenuto eccepiva l’infondatezza della domanda attorea giacché, in una successiva scrittura privata, parte attrice aveva fornito alla convenuta ampia quietanza liberatoria.

La pronuncia

Il Tribunale ha affermato che la quietanza è un atto unilaterale recettizio e non negoziale in quanto forma una dichiarazione di scienza con cui un soggetto riconosce quanto è stato prestato da taluno.

Dovendosi attribuire a tale atto la qualifica di confessione stragiudiziale, quest’ultimo assume valore probatorio di piena prova che preclude la prova contraria circa l’avvenuto pagamento del debito.

Il Tribunale ha anche chiarito che la dichiarazione contenuta nella quietanza, essendo irrevocabile, può essere invalidata solo dando la prova dell’errore o della coercizione.

Non ricorrendo nel caso di specie simili circostanze il Tribunale di Bari ha rigettato la domanda.

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Avv. Federico Tosi

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano e in Diritto Belga presso l’Université Catholique de Louvain-la-Neuve. Ha conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Bari ed è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Bari. Si occupa di Diritto Civile e di Diritto dello Sport.

Con la sentenza n. 22228/2019, depositata il 22 maggio 2019, la Corte di Cassazione, Sezione Quarta Penale, ha annullato con rinvio la sentenza del Tribunale di Massa, limitatamente al punto concernente la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente.

Il fatto

L’evento risale al 2017, quando un uomo, in sella alla propria bicicletta elettrica, ha provocato un incidente.

Al momento dell’alcoltest, il soggetto, risultava guidare il velocipede con un tasso alcolemico pari a 2,98 grammi per litro.

Secondo il C.d.S., non può essere punito con la revoca della patente il ciclista che guida sotto l’effetto di alcolici.

Il Tribunale, al contrario, ha revocato la licenza di guida poichè la bicicletta era con pedalata assistita e, pertanto, necessaria la patente ai sensi del Reg. Europeo n. 168/2013.

La pronuncia 

Tale Reg. Europeo si applica solo ai mezzi con pedalata assistita con potenza superiore ai 250 watt (cicli a propulsione), muniti di targa; tutti gli altri sono considerati velocipedi.

Su questo assunto si basa il ricorso in Cassazione proposto dall’uomo che si è visto ritirare la patente di guida per la seconda volta.

La Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza del Tribunale per un nuovo giudizio sul punto.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Il Tribunale di Udine, con sentenza 1242/2018, in una controversia opponente un appaltatore e una pubblica amministrazione appaltatrice in materia di esecuzione di un appalto pubblico, si è espresso sul lanoso problema della giurisdizione.

Il fatto

È noto, infatti, che a più riprese sia posta la necessità di comprendere dove debba essere individuato lo spartiacque tra la giurisdizione del giudice ordinario e la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ai contratti d’appalto e concessione pubblici.

Spesso la giurisprudenza ha posto tale confine individuando il momento fondativo della giurisdizione ordinaria nella stipula del contratto e, pertanto, in una fase a valle delle operazioni di gara.

Il caso di specie era, tuttavia, particolare giacché il contratto non era mai stato sottoscritto.

La pronuncia

Il Tribunale ha fissato tale regula iuris: in materia di appalti di opere pubbliche sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le sole controversie relative alle procedure di affidamento dei lavori, che si concludono con l’aggiudicazione.

Ogni controversia derivante dall’esecuzione del contratto nascente da condotte ascrivibili alla P.A. o alla parte privata, nella fase di espletamento del servizio oggetto della procedura d’evidenza pubblica, seppur precedente la stipulazione del contratto, è devoluta alla giurisdizione ordinaria.

Avv. Federico Tosi

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano e in Diritto Belga presso l’Université Catholique de Louvain-la-Neuve. Ha conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Bari ed è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Bari. Si occupa di Diritto Civile e di Diritto dello Sport.

Il Tribunale di Pordenone, con ordinanza del 13 marzo 2019, è stato il primo in Italia che ha deciso in merito allo scioglimento dell’unione civile con relativa attenzione al trattamento economico.

Il fatto

Una coppia di donne, già conviventi da tre anni, a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 76/2016, hanno deciso di unirsi civilmente presso il Comune di Pordenone.

Una delle due donne ha deciso di spostarsi da Venezia a Pordenone, accettando il lavoro meno remunerativo, pur di instaurare un rapporto stabile e di convivenza con l’altra donna.

Decorsi due anni, una donna ha deciso di interrompere l’unione, proponendo di aderire alla dichiarazione unilaterale di volontà disciplinata dall’art. 24 della suddetta Legge.

L’altra convivente non ha aderito alla dichiarazione nel termine dei tre mesi, venendo, così, depositato il ricorso per lo scioglimento.

La pronuncia 

Il Presidente del Tribunale, valutate le prove, ha disposto l’assegno divorzile per la partner economicamente più debole e per il mutamento di vita scelto per la convivenza della coppia.

Per tale motivo, si è fatto riferimento non solo alla natura assistenziale e a quella perequativa-compensativa, ma anche in considerazione del cambiamento di attività lavorativa, in minus, della partner.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La Corte di Cassazione, con sentenza n. 2480 del 29.01.19, ha specificato che la mancata richiesta di un contributo al mantenimento in sede di separazione, non preclude il riconoscimento di un assegno in sede di divorzio. Anzi, rappresenta un valido indicatore di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a procurare elementi valutativi sulle condizioni economiche dei coniugi.

Il fatto

A seguito della domanda di divorzio proposta dal marito nei confronti della moglie, il Tribunale di Ravenna, all’esito degli accertamenti disposti tramite Guardia di Finanza, determinava in euro 1.000,00 l’assegno divorzile a carico del marito nei confronti della moglie e in euro 1.300,00 l’importo da lui dovuto quale contributo economico per il figlio.

La Corte D’Appello di Bologna con sentenza 7.11.2014 riduceva l’assegno divorzile determinato dal Tribunale di Ravenna, evidenziando le “poliedriche capacità imprenditoriali” e la percezione di un reddito superiore a quello effettivamente dichiarato della moglie, riducendolo così, in euro 600,00. Per contro, non veniva accolta la riduzione dell’assegno in favore del figlio.

-La moglie, avverso tale sentenza ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi (1- violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. per aver ritenuto che la stessa godesse di redditi maggiori di quelli dichiarati, nonostante le indagini della Guardia di Finanza non avessero autorizzato tale conclusione 2- violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c. per aver valutato documentazione prodotta tardivamente 3- violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e art 116 c.p.c. per erronea applicazione delle norme in tema di prova presuntiva 4- violazione del principio perequativo previsto in tema di assegno divorzile.

-Il marito ha resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale per tre motivi, denunciando da opposta prospettiva le medesime statuizioni: a) mancata valutazione della documentazione in atti attestante l’autosufficienza economica della moglie b) omesso esame del fatto decisivo relativo alla mancata previsione di un assegno di mantenimento in sede di separazione consensuale” e violazione art. 5 L. 898/70.

La pronuncia

Le contrapposte censure in riferimento ai presupposti dell’assegno divorzile, per la corte sono fondate quelle della moglie e infondate quelle del marito.

La Cassazione, che è già intervenuta per definire e delineare la funzione e le caratteristiche dell’assegno divorzile (S.U. n. 11490 del 1990, Sez. I n. 11504 del 2017), con una recente sentenza, le Sezioni Unite n. 18287 del 2018, affermano che: “l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi o all’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive del coniuge richiedente sia da riconnettere alle caratteristiche ed alla ripartizione dei ruoli durante lo svolgimento della vita matrimoniale e da ricondurre a determinazioni comuni, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età di detta parte”.

All’assegno divorzile, dunque, oltre alla natura assistenziale, deve attribuirsi sia una natura perequativo-compensativa, che permette al coniuge richiedente, il raggiungimento di un reddito adeguato all’apporto fornito nella realizzazione della vita familiare, sia una funzione equilibratrice, che permette di valorizzare il ruolo e il contributo fornito dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio familiare.

La corte di cassazione, inoltre, specifica che: “la mancata richiesta di assegno di mantenimento in sede di separazione non preclude di certo il suo riconoscimento in sede divorzile, ma può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi alle condizioni economiche dei coniugi (Cass. 11686 del 2013)”.

Pertanto, accoglie il quarto motivo del ricorso principale, rigetta il primo e il terzo del ricorso incidentale, assorbiti tutti gli altri, cassa e rinvia alla Corte D’Appello di Bologna in diversa composizione.

Sentenza2480

Dott. Tommaso Carmagnani

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa di diritto civile, con maggior riguardo al diritto di famiglia.

L’inserimento di foto di minori sui social network deve considerarsi un’attività in sé pregiudizievole, in ragione delle caratteristiche proprie della rete internet.

Il fatto

All’esito di un divorzio, i figli sono stati assegnati congiuntamente ai genitori, con collocazione presso la madre.

Già prima dello scioglimento del matrimonio, la nuova compagna del padre ha condiviso ripetutamente sui social network fotografie dei figli minorenni degli ex coniugi.

Nonostante le diffide, sia verbali sia scritte, inviate alla signora, questa ha continuato a porre in essere il comportamento pregiudizievole nei confronti dei minori.

La madre ha, quindi, adito il Tribunale di Rieti, in via d’urgenza, per ottenere l’opportuna tutela nei confronti degli interessi dei propri figli.

La pronuncia

I giudici laziali, con la sentenza del 7 marzo 2019, hanno ritenuto fondata la progettazione della ricorrente.

La tutela della vita privata e dell’immagine dei minori è disciplinata, nel nostro ordinamento, dall’art. 10 c.c., dal Codice della Privacy e dalla Convenzione di New York del 1989.

Secondo l’Unione Europea, i minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali. Essi possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia e dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali.

Inoltre, “l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati, come ripetutamente evidenziato dagli organi di polizia (…) il pregiudizio per il minore è dunque  insito nella diffusione della sua immagine sui social network“.

Di conseguenza, la compagna del padre è stata condannata  alla rimozione delle immagini relative a questi ultimi e alla contestuale inibitoria della futura diffusione di tali immagini, in assenza del consenso di entrambi i genitori

Tribunale di Rieti

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

L’incarico di mediazione per vendita immobiliare, che in intestazione reca i nominativi dei comproprietari, ma che risulta poi sottoscritto solo da uno di essi anche per conto degli altri, senza alcuna procura allegata, né alcun altro atto di conferimento di poteri rappresentativi, è documento che non vincola direttamente tutti i comproprietari, in quanto non può ritenersi espressivo della loro volontà di procedere alla vendita dell’immobile.

Esso vincola unicamente il sottoscrittore, che da solo si è obbligato ad accettare e a far accettare agli eventuali altri aventi diritto sull’immobile la proposta d’acquisto che riporti le condizioni previste dall’incarico.

Il fatto

Un’agenzia immobiliare ha citato in giudizio un comproprietario di un immobile, per sentirlo condannare al pagamento di una somma a titolo di risarcimento dei danni per non aver accettato una proposta d’acquisto rispettosa delle condizioni previste dall’incarico.

Ha dedotto, in particolare, che nella scrittura di conferimento di incarico fosse previsto l’obbligo del venditore (solo uno dei comproprietari) di accettare e far accettare, agli eventuali altri aventi diritto sull’immobile, la proposta d’acquisto che rispecchiasse le condizioni di vendita.

Il comproprietario convenuto si è costituito in giudizio, dichiarando di non avere mai conferito l’incarico di mediazione alla società attrice e, anzi, di non aver mai avuto l’intenzione di vendere la propria quota di immobile.

La pronuncia

Il Tribunale di Rieti, con sentenza n. 200, pubblicata il 6 marzo 2019, ha respinto la domanda in quanto non è stato provato il titolo posto a fondamento della richiesta di risarcimento.

Esso, infatti, è costituito dall’incarico di mediazione, il quale non è stato, tuttavia, sottoscritto dal convenuto.

Questo documento, dunque, non può vincolare il comproprietario non firmatario, ma deve essere qualificato come scrittura proveniente da un terzo, rispetto al giudizio.

Pertanto, nella causa ha valore semplicemente indiziario.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La Seconda Sezione del Tribunale di Perugia ha depositato, in data 17 dicembre 2018, la sentenza n. 1677, affermando che, in caso di danni cagionati da fauna selvatica, il danneggiato ha l’onere di provare gli elementi del fatto illecito e di individuare il comportamento colposo dell’Ente pubblico.

Il fatto

Un motociclista, nell’imboccare una curva, è stato investito da un capriolo, il quale ha invaso la carreggiata non permettendo alcuna possibilità di sterzata o frenata al soggetto.

I danni allo scooter sono stati quantificati in € 3.175,68 e, il motociclista, ha sostenuto di aver riportato danni per € 100.000,00.

Lo stesso, ha affermato che la responsabilità del danno fosse attribuibile alla Regione, la quale avrebbe dovuto controllare e gestire la fauna selvatica, violando gli obblighi previsti dalla Legge n. 157/2011, per non aver censito, in modo periodico, gli animali selvatici.

La pronuncia

Secondo il Tribunale, il profilo di colpa ascrivibile alla Regione riguardo al censimento degli animali selvatici, risulta assolutamente generica.

Inoltre, lungo la strada percorsa dal motociclista, vi erano cartelli di pericolo per l’attraversamento di animali selvatici con il limite di velocità di 70 km/h.

In conclusione, è stata rigettata la domanda proposta dal soggetto contro la Regione per insussistenza dei presupposti previsti dall’art. 2043 c.c..

Fauna selvatica danno cagionato

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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